Sono sempre più numerose le sartorie sociali che operano in Italia. Spesso riescono a recuperare un concetto artigianale della produzione, dando anche un’occasione di inserimento nel mondo del lavoro a soggetti fragili. Essere un’impresa sociale non significa rinunciare a un beneficio economico, ma piuttosto aggiungerne uno sociale: sono imprese vere e proprie, che hanno la necessità di essere sostenibili economicamente, ma che hanno anche un impatto positivo sui territori in cui operano. A Marzabotto c’è un esempio straordinario di impresa sociale che opera nel mondo della moda: Coop Cartiera. Utilizzando scarti delle pelletterie, realizzano borse e accessori, realizzati da richiedenti asilo adeguatamente formati. Ne ho parlato nell’intervista di questo episodio con il fondatore Andrea Marchesini Reggiani.

Un modello produttivo diverso

La moda può essere uno strumento di inclusione? Certo che si, come dimostrano le numerose imprese sociali, cooperative e onlus, grandi e piccole realtà che si sono sviluppate in Italia in questi anni e che si stanno facendo conoscere sul mercato, andando a dialogare anche con realtà importanti. Hanno obiettivi chiari, business plan ben costruiti, progetti di crescita ambiziosi. E’ questo il primo pregiudizio da scardinare: quando si parla di imprese sociali si pensa sempre che non abbiano un modello di business ben definito, che siano gestite da volontari, luoghi dove la qualità del lavoro e del risultato passano in secondo piano. Niente di più sbagliato.

Rivolgersi a un’impresa sociale non significa fare beneficienza, ma fare la scelta di sostenere un progetto che può avere sulle persone coinvolte un impatto positivo determinante. 

Un viaggio tra le sartorie sociali in Italia

L’impresa sociale nasce con l’obiettivo di garantire un lavoro dignitoso ed adeguatamente retribuito a persone che vivono in una condizione di svantaggio. Un investimento che ha bene a tutti, anche al business. All’interno delle Sartorie Sociali si impara un mestiere e soprattutto si superano barriere:

Progetto QUID è sicuramente la più nota tra le imprese sociali che dimostrano come sia possibile fare una produzione di qualità, con numeri anche importanti, facendo leva sulla finalità sociale per creare un modo di fare impresa nuovo. Anna Fiscale è la fondatrice  ed è stata anche ospite di un episodio del podcast: l’impresa opera principalmente con soggetti vulnerabili. I capi di abbigliamento vengono realizzati con tessuti messi a disposizione da brand, anche quelli del lusso, che hanno deciso di sostenere il progetto. Ma negli ultimi mesi l’iniziativa è cresciuta ulteriormente e adesso nella sede di Verona si producono anche capi di abbigliamento e accessori per i brand, che commissionano a  Progetto Quid delle piccole produzioni. Le lavoratrici, grazie alla formazione e all’esperienza, hanno potenziato le loro capacità e sono in grado di soddisfare le esigenze di qualità richieste per andare sul mercato. Oggi ha 125 dipendenti che provengono da 16 Paesi, di cui l’85% sono donne e ha anche un laboratorio con otto lavoratrici all’interno del carcere di Montorio a Verona, oltre a un e-commerce e dieci negozi diretti Ogni anno produce centinaia di migliaia di capi e accessori e, nel 2019, ha fatturato tre milioni di euro, con una crescita del 100% rispetto al 2015.

All’interno delle Sartorie Sociali si impara un mestiere e soprattutto si superano barriere: i dipendenti sono persone con disabilità oppure migranti o ancora donne che escono da percorsi difficili. Ma ci sono anche Sartorie Sociali che operano con ex detenuti oppure strutture che sono state create in carcere o in comunità di recupero. Di fronte alla macchina da cucire, si affrontano sfide quotidiane che aiutano a riconnettersi con il mondo. 

Le specializzazioni e la clientela sono le più varie. Ad esempio la Cooperativa Alice, a Milano, si occupa anche della produzione delle toghe per magistrati  e avvocati. La cooperativa ha laboratori artigianali nelle sezioni femminili delle carceri lombarde di San Vittore, Bollate, Monza e una sartoria esterna aperta a chi esce da percorsi di violenza e difficoltà. Attraverso un lavoro equamente retribuito ha permesso a centinaia di donne di raggiungere l’indipendenza economica, sotto la guida di designer dell’industria della moda che hanno avviato la loro collaborazione con la sartoria. Nel 2020 ha ottenuto un totale ricavi di oltre 350 mila euro. 

https://www.cooperativalice.it/mission/

“Not charity, just work”, si legge nel sito della cooperativa. Per chi lavora in questo settore è fondamentale riuscire a vivere di quello che si produce, altrimenti non può essere qualificato lavoro. Il recupero della dignità passa anche da qui. Queste realtà sono orgogliose della qualità di quello che riescono a produrre. Si tratta di accessori e articoli non troppo elaborati, ma che vengono eseguiti con grande attenzione. A volte anche a mano, quando il progetto lo richiede. 

Alice sta creando un distretto di fornitori da offrire ai brand, per aumentare le capacità produttive. Tra le sartorie sociali con cui hanno stretto partnership ci sono piccole realtà che fanno lavori artigianali di altissimo livello, come le serigrafie e i ricami di Extra Liberi, che mette al lavoro i detenuti e le detenute del carcere Lorusso e Cutugno di Torino; o la cooperativa sociale Manusa di Pistoia, che lavora con i rifugiati e produce ricami che sono opere d’arte.

Talking Hands è un laboratorio permanente di design e di innovazione sociale a Treviso. l progetto mira a creare un percorso di integrazione rivolto a richiedenti asilo e rifugiati coniugando l’attività manuale con il racconto della propria storia, del paese d’origine, del viaggio e delle proprie aspirazioni. I beneficiari sono tutti rifugiati richiedenti asilo ospitati all’interno di centri temporanei di accoglienza di Treviso. Sul sito ci sono dei progetti molto interessanti, come Woven stories , una serie di sedute e complementi d’arredo realizzati dallo Studio Zanellato Bortotto in collaborazione con Talking Hands.

Molto bello anche il progetto di Reborn In Italy, con il suo atelier all’interno della sartoria sociale di Chieri. Qui vengono realizzati capi firmati da “sarte invisibili Rinate in Italia”, come si definiscono loro. Mamme sopravvissute alla guerra, all’esodo, alla vita in strada. Sono tutte contrattualizzate e danno vita a creazioni di altissima fattura. Realizzano anche oggetti per la casa, tutti con un contenuto di design interessante. Anche in questo caso, vi consiglio di fare un giro sul sito.

Sull’importanza del design come strumento e delle collaborazioni con stilisti affermati punta anche Coloriage, nata a Roma, che fa formazione finalizzata alla valorizzazione di arti e mestieri e ha fondato la prima Scuola di Moda Gratuita, Solidale e Multiculturale d’Italia, uno spazio in cui artigiani, designer, e maestranze di ogni provenienza possano trasmettere le loro conoscenze e le loro storie. Coloriage, nel 2021, è diventata cooperativa di produzione lavoro e impresa sociale.  

Una mappatura delle sartorie sociali in Italia

Facendo la ricerca sul tema delle sartorie sociali mi sono imbattuta in realtà bellissime, di belle storie e di grandi contenuti. Ve ne ho citate alcune, ma è un mondo vastissimo. C’è chi sta provando a fare una mappatura delle realtà attive in tutta Italia. Fondazione Progetto Legalità di Palermo, ha condotto una ricerca sulle sartorie sociali, disponibile sul sito dell’associazione.

L’intervista di questo episodio: l’esperienza di Coop Cartiera

Coop Cartiera nasce dalla collaborazione tra la cooperativa Lai-momo ed Ethical Fashion Initiative, un progetto dell’International Trade Center che mette in connessione piccole realtà artigiane del Sud del mondo con grandi marchi internazionali della moda. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti sia a livello italiano che europeo, anche per l’innovazione del suo modello di business: lavora per conto proprio, conto terzi, sviluppa progetti in co-branding. E’ stata anche segnalata sul New York Times per una delle sue creazioni. Un made in Italy che piace molto all’estero, per i valori che trasmette. Il suo fondatore Andrea Marchesini Reggiani, mi ha spiegato tutto nell’intervista. E dopo aver ascoltato sono certa che avrete più chiare le potenzialità di un modello di business sociale.