La corsa ai nuovi materiali non si arresta: è questa la strategia di ogni brand per cercare di comunicare la propria attenzione all’ambiente. Se poi di quei materiali se ne producono scarse quantità e rappresentano più uno spot che una soluzione conta ben poco. Però rendere un materiale alternativo disponibile sul mercato e non solo per una capsule, servono non pochi sforzi. Ne ho parlato in questo episodio con Enrico Cozzoni, direttore Ricerca & Sviluppo di Pangaia Grado Zero: la sua aziende di ricerca ha brevettato il FlowerDown ed è entrata a fare parte della galassia Pangaia. Il brand inglese sta adottando una strategia tutta nuova nel mercato della moda: vende (con successo) i propri prodotti ai consumatori, ma il vero obiettivo aziendale è quello di affermarsi sul mercato del BtoB per la sperimentazione e la vendita di nuovi materiali. Allora investire nel tessile può essere attraente?

La corsa ai nuovi materiali

Nuovi materiali: un capitolo aperto. Costretti a dover fare i conti con lotta quotidiana di cercare di migliorare i processi che portano alla produzione delle fibre tradizionali, tanti brand, grandi e piccoli, sono alla caccia di nuovi materiali. Biodegradabili, bio-based, organici: sono solo alcune delle caratteristiche più ricercate. Vengono utilizzati per fare delle capsule collection, godono di grande attenzione e possono essere comunicati bene, aiutano a far crescere nel consumatore l’idea che il capo che ha scelto di acquistare sia stato prodotto da un brand molto attento. La “verginità” nella comunicazione di questi materiali è importante: non si può più parlare di lana, cotone o poliestere senza dover specificare molte altre informazioni su come è stato prodotto. Parli di un altro nuovo materiale e c’è una narrazione tutta da costruire: è più semplice, è evidente. 

Ma questi nuovi materiali possono rappresentare una reale alternativa? Sono pronti a essere utilizzati sul mercato? Ci sono quantitativi scalabili a disposizione? Una bella domanda, che ho voluto rivolgere a Enrico Cozzoni, ingegnere aerospaziale, che lavora da tantissimi anni nel tessile con la sua azienda di ricerca. Collocata nel cuore della Toscana, a metà strada tra il distretto tessile di Prato e quello conciario di Santa Croce, la sua impresa Grado Zero conosce bene come nasce l’idea di un materiale, come viene sviluppato, ma soprattutto come viene Industrializzato, perché senza quel passaggio fondamentale non si riesce a portare nessun beneficio al mercato

Il FLWRDWN, la svolta bio-based

Sono tanti i materiali e le applicazioni che hanno preso forma nel suo laboratorio, ma a cambiare la vita a lui e al suo staff è stato il Flowerdown (FLWRDOWN nella tassonomia di Pangaia): una imbottitura realizzata con una combinazione di fiori di campo, biopolimeri ed areogel, in grado di rappresentare un’alternativa alle imbottiture in piuma. Una innovazione importante che ha portato Grado Zero ad essere acquisita da Pangaia, diventando uno dei centri di ricerca del brand per lo sviluppo di nuovi materiali.

All’inizio della pandemia la scorsa primavera, all’interno di Pangaia lavorava un team composto da 12 scienziati e ingegneri dislocati in vari angoli del globo. Ora, quel numero è a nord di 160. Il brand è andato alla ricerca dei team più attivi, con una strategia di acquisizione mirata. La sperimentazione e lo sviluppo richiedono tempo, sono quasi un lusso in un settore che corre così veloce. Ma solo così si possono creare alternative che possano fare la differenza sul mercato.

Pangaia FLWRDWN™ Lite 

Il “naturalismo high-tech” di Pangaia

Le felpe proposte da Pangaia sono diventate un oggetto del desiderio in fase di lockdown e infatti quello stile è stato anche imitato da tantissimi altri brand, ma i materiali usati per la realizzazione dei capi non avevano le stesse caratteristiche. Le iconiche felpe sono realizzate con quello che il marchio chiama un “mix di cotone biologico, di alta qualità, riciclato e di provenienza responsabile”, realizzato con scarti di produzione e tutti i coloranti sono atossici e privi di sostanze chimiche nocive.

Ma non è questo il vero business del brand: Pangaia afferma di essere un’azienda che si occupa di scienza dei materiali mascherata da un marchio di moda, con i suoi capi che servono semplicemente come veicolo per l’innovazione.

Le aziende di moda non possiedono i loro mezzi di produzione e storicamente, la ricerca e lo sviluppo avvengono in luoghi separato dalla progettazione e dalla produzione. La ricerca è una cosa, la produzione un’altra, insomma. Per Pangaia questo è un grosso problema: chi sviluppa i materiali deve anche poterli sperimentare sul mercato. E adesso nella sezione LAB del sito si possono vedere tutti i materiali a disposizione: il più recente è il denim realizzato con ortica selvatica dell’Himalaya (PANettle™) o con la canapa alimentata dalla pioggia (PANhemp™). Entrambi sono mischiati con cotone biologico certificato e trattati con PPRMINT™, un innovativo trattamento fatto con la menta.

Ma cosa significa fare innovazione e quando un nuovo materiale può davvero rappresentare un’alternativa?

Enrico Cozzoni, direttore Ricerca & Sviluppo di Pangaia Grado Zero me lo ha spiegato nell’intervista, mettendo anche il luce cosa significa fare innovazione e come si sviluppa un nuovo materiale che possa rappresentare una reale alternativa e non solo uno spot. Non solo: mi ha anche raccontato che il centro in Toscana è anche uno spazio in cui i designer possono lavorare per sviluppare i propri progetti con i nuovi materiali di Pangaia. Solo studiandone l’applicazione si possono conoscerne le potenzialità. Solo la condivisione può accelerare l’innovazione. Ascoltate l’intervista.

Cover Photo by Louis Reed on Unsplash