EP32: I diritti dimenticati dei lavoratori del fast fashion

Il fashion è responsabile dello sfruttamento di milioni di lavoratori al mondo. Una catena di fornitura lunga, frammentata, opaca, difficile da controllare: ecco perché dalla produzione della materia prima, alla realizzazione del tessuto, per arrivare all’assemblaggio dei capi, questo sistema può essere la causa di una serie di ingiustizie e alimentare sfruttamento e povertà. Questo modello produttivo è ancora sostenibile? E’ il momento di cambiare: Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, è la protagonista dell’intervista di questo episodio del podcast e mi ha aiutato a fare un quadro molto chiaro della situazione attuale, dove anche le difficoltà legate al Covid stanno avendo un forte impatto.

Il silenzio è rotto

Con il Covid la situazione è scoppiata ed è sotto gli occhi di tutti: nessuno ha più interesse a tacere, soprattutto quei lavoratori e quelle imprese che lavorano come invisibili collaboratori delle imprese fornitrici “ufficiali” dei brand. Ordini mai ritirati e non pagati, sconti estremi, lavoro forzato in condizioni precarie e senza sistemi di protezione personale: ogni giorno sui giornali di tutto il mondo si può raccogliere una triste rassegna stampa di quello che sta accadendo. Se il silenzio viene rotto, nessuno può far finta di non vedere quello che accade. 

Secondo le indagini di Clean Clothes Campaing lo stipendio pagato a un lavoratore del Bangladesh è un quinto di quello che gli serve per vivere; in India è un terzo. Non è molto diverso in Europa: in Serbia, Croazia, Ucraina e Bulgaria si percepisce circa un quarto di quello che è necessario per vivere. (Di questo tema avevo già parlato qui)

La trasparenza della catena di fornitura, un elemento fondamentale

Per tenere sotto controllo lo sfruttamento e la condizione dei lavoratori è fondamentale conoscere a fondo la catena di fornitura. I brand si affidano a audit e certificazioni per difendersi da brutte sorprese, ma spesso la corruzione e lo sfruttamento iniziano proprio da qui.

Dall’indagine di Fashion Revolution “Out of sight” effettuata su 62 brand, emergono dati interessanti: 46 brand su 62 rendono noti i nomi di chi assembla i loro vestiti; solo 18 su 62 rendono nota parzialmente la lista dei fornitori di tessuto. Un solo brand tra quelli analizzati ha reso disponibile l’elenco dei siti di produzione del ciclo di lavorazione tessile.

Il danno reputazionale, difficile da riparare

I brand temono situazioni di sfruttamento lungo la catena di fornitura, perché causano un immenso danno alla loro immagine e più i consumatori sono attenti e più i brand sono vulnerabili. Il danno reputazionale è difficile da riparare per chi investe così tanto per costruire un’immagine legata alla sostenibilità e alla responsabilità.

Il tema della responsabilità sociale non è mai stato così attuale, anche se noi tendiamo a darlo per scontato. Prendiamo i 4 principi fondamentali dell’ILO (international Labour Organization) che tutti gli Stati sono tenuti a rispettare:

  1. libertà di associazione e riconoscimento effettivo del diritto di contrattazione collettiva ;
  2. eliminazione di ogni forma di lavoro forzato o obbligatorio ;
  3. abolizione effettiva del lavoro minorile ;
  4. eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione.

State pensando che si tratta di libertà fondamentali, quasi banali. Eppure ci sono dei Paesi in cui questi diritti non sono per niente scontati. In Italia non abbiamo il lavoro minorile, ma sull’eliminazione delle discriminazioni vi sentireste di mettere la mano sul fuoco? Quando si parla di resposansabilità e sostenibilità non si può fare l’errore di sentirsi “arrivati”: c’è sempre qualcosa da fare, si può sempre progredire. Ci sono dei Paesi che hanno un percorso più lungo da fare, ma anche nella nostra catena di fornitura ci sono delle situazioni di vulnerabilità che devono essere monitorate. 

L’importanza del dialogo sociale

Fair Wear ha pubblicato a inizio febbraio una serie di report su alcuni paesi ritenuti particolarmente critici da un punto di vista di responsabilità sociale: i dieci paesi sono Bangladesh, Bulgaria, Ethiopia, India, Myanmar, Cambodia, Indonesia, Mexico, Honduras, and Vietnam.

Il progetto si chiama  Social Dialogue in the 21st Century e si concentra sulla condizione del dialogo sociale in questi paesi. Il dialogo sociale può fornire migliori condizioni di lavoro, stabilità sociale e condizioni di parità nel settore dell’abbigliamento. La libertà di associazione e i diritti di contrattazione collettiva rimangono fondamentali, ma è tempo di ripensare a come dovrebbe funzionare il dialogo sociale in un’economia globale. Leggeteli, se avete tempo, sono davvero molto interessanti.

Social Dialogue in the 21st Century focuses on ten sourcing countries: Bangladesh, Bulgaria, Ethiopia, India, Myanmar, Cambodia, Indonesia, Mexico, Honduras, and Vietnam.

Due diligence obbligatoria, entro giugno la proposta della Commissione Europea

E’ annunciata per il mese di giugno una proposta di legge dell’Unione Europa mirata all’introduzione della due diligence obbligatoria per i prodotti che vengono immessi nell’Unione Europea. Sarà multisettoriale e non riguarderà solo la moda, ma mira a rendere pienamente responsabili le aziende per i prodotti e i semilavorati che importano, in relazione alla responsabilità sociale e all’impatto ambientale.

E’ quanto emerso anche nel corso della consultazione effettuata nei mesi scorsi dalla Commissione Europea, alla quale hanno partecipato circa 700 soggetti della società civile, sindacati e istituzioni accademiche. Gli intervistati chiedono una nuova e forte legge dell’UE che imponga a tutte le società di identificare, prevenire e affrontare il tema dei diritti umani e l’impatto ambientali lungo l’intera catena del valore. Le aziende devono essere ritenute responsabili per pratiche dannose nei loro paesi d’origine e all’estero e devono affrontare forti sanzioni se infrangono le regole.

L’intervista a Deborah Lucchetti

Teniamo gli occhi aperti, non abbassiamo il livello di attenzione, forse è il momento giusto per provare a mettere in piedi modelli di produzioni più sostenibili: è questo il messaggio che arriva dall’intervista a Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della campagna Abiti Puliti, che ha affrontato insieme a me tanti punti interessanti, regalandomi una visione a 360 gradi del problema dei diritti. Ascoltate il podcast

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