Bello, morbido, prezioso: parlare di cashmere non è semplice, ci sono tanti aspetti da tenere in considerazione, soprattutto quando si parla di sostenibilità. E’ infatti una materia prima che negli ultimi anni è stata al centro di un vero e proprio boom, che ne ha alterato i metodi di produzione e ha reso molto pesante il suo impatto sul pianeta. Alcuni brand hanno deciso di non usarlo più, altri stanno lavorando per soluzioni responsabili. Ma c’è molta strada da fare. Ne ho parlato con Willy Gallia, Chief Sustainability Officer e Buyanaa Damdin Sales Manager Cashmere Authentico del Gruppo Schneider, ospiti dell’intervista di questo episodio.

Il boom del cashmere

Da simbolo di lusso, ma anche di durevolezza, di stile, di specialità, è diventato un materiale che possiamo trovare anche nelle catene del fast fashion, con il dilagare del concetto di “lusso a buon mercato”. Questo crea anche una grande confusione: possiamo trovare un maglioncino di cachemire a 100 euro e lo possiamo trovare a 800: come riconoscere la differenza?

La domanda di questa fibra ha avuto un boom incredibile negli ultimi anni: nel 2002 la Mongolia ha esportato 45, 2 milioni di dollari di cashmere, che sono saliti a 390 nel 2018. Questo ha significato aumentare il numero dei capi e le zone destinate all’allevamento, con un impatto fortissimo sul pianeta.

Le capre Hircus, una storia antica

Le capre Hircus, le più pregiate, producono la fibra più fine. Questa razza di capre viene allevata dai pastori nomadi tra la Mongolia, la Cina sudoccidentale, l’Iran, il Tibet, l’India settentrionale e l’Afghanistan. E’ una tradizione millenaria, che viene tramandata da generazione in generazione: il nomadismo è fondamentale per l’allevamento di questi animali, che grazie agli spostamenti e alla vita in terreni nuovi, riescono a mantenere un manto pregiato. Inoltre al terreno viene dato il tempo di rigenerarsi e l’equilibrio è perfetto. Le capre Hircus dei pastori nomadi vengono pettinate una volta a stagione: ogni animale produce da 100 a 200 grammi di fibra. Ci vogliono circa 4 capre per avere il materiale per fare un maglione. Ma da quando il cashmere è diventato l’oggetto del desiderio di milioni di consumatori in tutto il mondo, lo stile di vita di tante capre, e anche degli allevatori, è cambiato repentinamente. Sono arrivati gli allevamenti intensivi, dove le capre sono tenute prigioniere e vengono pettinate più spesso, per raccogliere più fibra. Il 90% del cachemire proviene dalla Mongolia e da alcune regioni montuose della Cina: togliere troppo presto il pelo all’animale significa condannarlo a morte per assideramento. Questi animali hanno infatti un leggero strato di grasso, per questo sviluppano un pelo così morbido e caldo.  

L’impatto sui pastori

Il problema è anche culturale: i pastori nomadi vivono in simbiosi con il proprio bestiame, ne seguono gli spostamenti, cercano i terreni migliori per i pascoli. E’ una cultura millenaria, con riti e tradizioni, che viene tramandata di generazione in generazione e che rischia di essere cancellata. La forte richiesta del mercato sta costringendo i pastori a cercare soluzioni più efficienti, per aumentare la materia prima venduta. Inoltre le capre Hircus devono sempre vivere con un certo numero di pecore, per proteggere il suolo: le capre strappano l’erba dalla radice, le pecore massaggiano il terreno. La loro coabitazione protegge il suolo da impoverimento e desertificazione, raggiungendo un perfetto equilibrio.

E qui siamo all’impatto sociale della questione: le condizioni di lavoro dei pastori di capre cashmere, che devono aumentare le dimensioni della mandria per mantenere il loro reddito mentre i prezzi sono ridotti. Con l’abbassamento dei costi del materiale, gli agricoltori affrontano anche il rischio di essere sottopagati, un problema comune nella moda.

Oggi solo il 3% della filiera del cashmere in Mongolia può attualmente essere considerata “sostenibile”, secondo un recente rapporto di Textile Exchange.

La desertificazione in corso

Le praterie delle regioni asiatiche dove pascolano le capre soffrono enormemente. Il fenomeno della desertificazione è in aumento. L’aumento incredibile del numero dei capi sta uccidendo queste terre: un tempo verdi e incontaminate, queste regioni stanno rapidamente diventando deserti. Questo crea uno squilibrio ecologico per l’intero pianeta.

Il cambiamento meteorologico, con temperature medie più calde e precipitazioni ridotte, insieme all’aumento del pascolo del bestiame nelle praterie della Mongolia, hanno messo la regione in una posizione precaria. Utilizzando i dati satellitari di oltre 20 anni, gli studi indicano che le praterie si stanno prosciugando. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, il numero di capre è cresciuto da 4,3 milioni nel 1985 a quasi 30 milioni nel 2020, ovvero sette volte. 

Chi ha rinunciato al cashmere

Patagonia e Stella Mac Cartney hanno deciso di bannare questo materiale dalle proprie collezioni e usano solo cashmere riciclato. Questo è un aspetto positivo di questo materiale naturale: è riciclabile e la qualità della materia resta ottima. Senza contare il mercato del second hand, dove circolano migliaia di capi in cachemire. Essendo un materiale di grande qualità ha una vita più lunga e quando un maglione è in pessime condizioni e non può essere più indossato, è pronto per essere riciclato e diventare fibra e poi filato. 

In Italia il brand Reverso fornisce cashmere riciclato ai principali brand del lusso.

https://www.stellamccartney.com/it/it/sustainability/recycled-cashmere.html

Il progetto del gruppo Kering

Il gruppo Kering ha invece lanciato un progetto insieme alla Wildlife Conservation Society, con la collaborazione della Stanford University e della NASA, Si chiama South Gobi Cashmere Project e si concentra nella produzione di cashmere di alta qualità nella steppa mongola, grazie alla collaborazione con gli allevatori. Iniziato nel 2014, il progetto ha innanzitutto aiutato a migliorare la pettinatura delle capre, per rendere il processo più pulito ed efficiente. E’ stata fatta anche un’azione educativa per garantire una migliore gestione della mandria, stimolando i pastori a vendere gli animali più anziani, sostenendoli per accedere ai mercati di carne, formaggio e latte di capra. Queste azioni, accompagnate dalla garanzia di un prezzo equo per i materiali, ha permesso ai pastori di ridurre il numero di capi, garantendosi però un adeguato livello di ricavi.

Cashmere cinese o cashmere mongolo?

Le maggiori zone di produzione sono la Cina e la Mongolia: ma ci sono delle differenze tra il cachemire mongolo e quello cinese? Le pratiche di produzione del cashmere variano notevolmente. Il cashmere mongolo è generalmente quello che chiamiamo “cashmere allevato”. I pastori mongoli sono semi-nomadi, si spostano tra campeggi stagionali e pascolano le loro mandrie in pascoli aperti, non recintati e di proprietà della comunità. Al contrario, la produzione di cashmere oltre confine è generalmente più intensiva. I pastori in Cina non sono più nomadi e ora pascolano le loro capre in pascoli recintati di proprietà privata, che sono meglio descritti come “fattorie di cashmere”. In questi allevamenti il ​​pascolo non è sempre sufficiente per durare tutto l’anno e le capre vengono spesso chiuse in fattorie e nutrite con fieno durante i mesi invernali. Mentre il cashmere mongolo viene tipicamente raccolto a mano utilizzando pettini, in Cina l’uso di cesoie elettriche è più comune.

La tracciabilità e le certificazioni

Come si può essere sicuri di quello che stiamo acquistando? La tracciabilità è fondamentale e dobbiamo ricevere informazioni dell’intera storia della fibra,  iniziando dalla provenienza dell’animale. Per garantire questo, è in ascesa lo standard del Sustainable Fibre Alliance, che ha stilato un Codice di Condotta applicato dalle comunità di pastori con lo scopo di preservare e rigenerare i pascoli, garantire il welfare degli animali e creare reti di sostentamento a supporto delle oscillazioni del mercato. Come ormai capita sempre più spesso nella moda, dell’organizzazione promotrice fanno parte anche i brand, creando quelle strane commistioni tra brand, controllori e controllati che lasciano qualche dubbio sull’efficacia dei sistemi. Sicuramente la SFA è la certificazione per il cashmere in ascesa.

Cashmere si o no?

Sul cachemire potrei raccontarvi ancora molte cose: del benessere degli animali, delle campagne contro l’uso delle fibre animali, della guerra commerciale in atto tra fibre sintetiche e fibre naturali. Non possiamo dimenticare che non sono solo organizzazioni come la Peta a voler mettere fuori dal mercato le fibre animali: ci sono anche movimenti a livello commerciale e industriale. Ad esempio l’Higg Index della Sustainable Apparel Coalition penalizza pesantemente le fibre animali (ne ho scritto qui).

Per non parlare del problema dei consumatori, che troppo spesso sono vittime di vere e proprie truffe, credendo di acquistare capi contenenti cachemire, che invece ne hanno solo qualche unità al proprio interno.

Come ci si tutela? Sicuramente è una fibra speciale, che non può essere abusata e dobbiamo imparare a riconoscere il suo valore alle cose. E’ un prodotto di lusso e come tale deve essere trattato. In questo settore c’è molto da fare, perché bannare un materiale, che ha anche un valore culturale, è una scelta estrema, ma è necessario avviare un percorso di responsabilità serio

L’intervista

Buyanaa Damdin Sales Manager Cashmere Authentico e Willy Gallia, Chief Sustainability Officer del Gruppo Schneider, mi hanno aiutato a capire qualcosa di più di questo materiale, dell’importanza che ha per le popolazioni locali, delle scelte che possono essere fatte per rendere migliorare la situazione. Buon ascolto.