Le emissioni di CO2 sono al centro del dibattito, tra gli obiettivi degli accordi di Parigi e le campagne che stanno prendendo forma in tutti i settori, con l’impegno dei brand ad annullare il proprio impatto in pochi anni. Ma sapete come funziona questo complesso sistema della misurazione e dell’annullamento delle emissioni di CO2? Può sembrare semplice da attuare, tanto da lasciare spazio a antipatiche campagne in odore di greenwashing. La misurazione dell’impatto di CO2 è anche un modo che viene usato sempre più spesso dai brand per comunicare la sostenibilità dei propri capi: quel numerino magico potete trovarlo nelle schede prodotto e anche nei cartellini. Ma cosa significa davvero?

L’impatto della CO2 nel mondo della moda

Secondo un recente studio dell’Università di Manchester, l’industria della moda produce il 10% delle emissioni globali di anidride carbonica, utilizza 1,5 trilioni di litri di acqua all’anno, produce 92 milioni di tonnellate di rifiuti. Per non parlare del tema delle microplastiche, il cui impatto è ancora difficile da valutare globalmente. Un sistema che non accenna a rallentare: dal 2000 ad oggi la quantità di abbigliamento prodotto è praticamente raddoppiata. E dove finisce questa grande quantità di rifiuti tessili? viene incenerita, finisce in discarica o viene esportata nei paesi in via di sviluppo.

Senza contare che quando per produrre un abito potrebbe essere necessario fargli fare il giro del mondo diverse volte per essere prodotto, con il relativo impatto ambientale. Secondo lo studio dell’Università di Manchester il costo ambientale per la produzione di una t-shirt è di 2,6 kg di CO2.

The Guardian

E’ un esempio e potrete sicuramente trovare studi che affermano anche numeri differenti (mi sembra un po’ basso l’impatto della produzione del cotone), però serve a farci capire quanti siano gli aspetti da prendere in considerazione nella misurazione dell’impatto della CO2 e come potrebbe essere complicato mettere insieme un sistema credibile. Ma senza misurazione non ci può essere nessuna azione di azzeramento degli impatti e su questo non c’è dubbio. Avevo già parlato di questo tema anche in un altro post, che trovate qui.

Come si diventa a “emissioni zero”

Solo oltre 36 i marchi di moda certificati a “emissioni zero” dall’organizzazione no profit Climate Neutral (qui potete trovare la lista) e sono oltre 200 quelli di tutti gli altri settori. In questa lista compaiono nomi importanti come Reformation, Allbirds, Ministry of Supply. La certificazione si basa su un accurato processo di misurazione dell’impatto di CO2, sulla selezione di progetti e azioni che comportano un risparmio di un determinato quantitativo di CO2 e sulla certificazione da parte di Climate Neutral del raggiungimento dell’annullamento delle emissioni.

C’è poi anche CDP che certifica l’annullamento delle emissioni, utilizzando un sistema basato sul calcolo di un punteggio che misura l’impatto sui cambiamenti climatici, la deforestazione e la scarsità d’acqua. CDP annovera tra i propri clienti colossi come LVMH, Estée Lauder e L’Oréal.

La neutralità del carbonio è diventata un punto comune per i marchi di moda che desiderano essere più sostenibili, e che viene attuato in gran parte grazie a compensazioni o finanziamenti al rimboschimento. Marchi come Burberry e Gabriela Hearst hanno ospitato sfilate di moda a emissioni zero, Ganni si impone una “tassa sul carbonio” e Gucci ha annunciato il raggiungimento dell’obiettivo carbon neutral della propria catena di fornitura. Sempre Gucci ha dichiarato in un comunicato di aver “già ottenuto una riduzione del 16% della sua impronta complessiva lungo la sua catena di approvvigionamento dal 2015”, una specifica necessaria per evitare di essere travolti dal dubbio sistema degli acquisti di emissioni di CO2.

Come si acquista la CO2

La maggior parte delle aziende raggiunge la “carbon neutrality” attraverso una combinazione di strategie: da una parte la riduzione delle emissioni e poi con l’acquisto di crediti di compensazione di carbonio. Ad esempio la riduzione delle emissioni può avvenire con il passaggio all’uso di energia rinnovabile nei propri stabilimenti, è un gesto concreto che ha un un impatto positivo. Ma non può bastare e così arrivano anche i progetti per il raggiungimento della neutralità: in questo caso il marchio aderisce a un progetto che “cattura” o evita di immettere in atmosfera una determinata quantità di carbonio. Questo sistema è abbastanza controverso. Secondo Greenpeace e le associazioni ambientaliste questo approccio fornisce alle aziende una scusa per non ridurre le loro emissioni dirette; inoltre il mercato della compensazione è ritenuto inaffidabile, la contabilizzazione degli offset è spesso imprecisa.

Esistono numerosi tipi di progetti in cui un marchio può investire per annullare le proprie emissioni di CO2: per fare qualche esempio, alcuni finanziano la cattura del metano, un potente gas serra, che fuoriesce dalle discariche. Altri prevedono la creazione di un parco eolico in modo che la gente del posto possa smettere di fare affidamento sull’energia alimentata dal carbone. Altri ancora forniscono alle comunità rurali nel mondo in via di sviluppo filtri per l’acqua in modo che non debbano abbattere gli alberi per far bollire la loro acqua, quindi è sicura da bere. Poi ci sono quelli che riguardano la riforestazione di aree del pianete e sono quelli che creano maggiore sospetto e che sono più spesso attaccati: ci possono essere casi in cui in un’area verde si possono piantare alberi e nell’area accanto si abbattono per creare materia prima o lasciare spazio ad altre attività. Non c’è modo di verificare, questo è il punto.

Un supporto per l’agricoltura rigenerativa

Mentre i detrattori di questo sistema potrebbero sostenere che le compensazioni lasciano che i marchi paghino per inquinare, è anche vero che i fondi investiti in alcuni progetti potrebbero fare la differenza. Si tratta di iniziative che vanno a sostenere agricoltori e altri proprietari terrieri privati, che spesso hanno bisogno di sostegno finanziario per poter operare una transizioni a pratiche agricole più rispettose dell’ambiente. Le pratiche di agricoltura rigenerativa, ad esempio, hanno un incredibile potenziale per ridurre il carbonio emesso in atmosfera, ma possono esserci barriere finanziarie per gli agricoltori che vogliono avviarsi su questa strada.

Non tutto quello che si dice sull’annullamento delle emissioni di CO2 è vero, tanti stanno costruendo strategie di marketing che sanno molto di greenwashing su questo tema. D’altra parte può anche essere davvero il modo meno impegnativo e più abbordabile per portare un risultato ambientale da esibire. E’ anche vero che in questo sistema ci sono delle iniziative che invece sono interessanti e che vanno sostenute. Niente è semplice quando si parla di sostenibilità, non esiste il bianco o il nero, come vi ho detto altre volte: è necessario valutare, sempre, quello che si sta leggendo, per non rischiare di acquistare qualcosa che non corrisponde ai nostri valori.