Negli anni Sessanta circa il 95% degli abiti indossati in USA era prodotto lì; oggi il 97% degli abiti è prodotto all’estero. Negli anni ci sono stati recessioni, la globalizzazione, accordi commerciali che non hanno favorito la manifattura. E così la produzione è finita altrove. Ma gli Stati Uniti sono pronti a tornare sui propri passi e a riportare il fashion nei propri confini: dalla fase creativa, alla produzione della materia prima, all’assemblaggio dei capi. Una strategia di reshoring che punta sulle due capitali del fashion New York e Los Angeles, su nuove destinazioni come Detroit, sulla produzione del cotone e poi sul Texas come primo produttore mondiale di canapa. Ma c’è molto da lavorare.
Riportare la manifattura in USA: un’occasione per i brand piccoli e medi
Oggi negli Stati Uniti operano circa 100 mila stabilimenti tessili. Secondo un rapporto ThomasNet del luglio del 2021, il 24% delle aziende manifatturiere statunitensi ha in programma di ristabilire le proprie attività all’interno dei confini entro il 2025. Ma la realtà è che la produzione statunitense, allo stato attuale, è ancora troppo inefficiente per le grandi aziende per poter pensare a un ritorno in patria dei brand che producono grandi volumi. Per realizzare capi di abbigliamento sono necessari tessuti, cerniere, bottoni e molto altro, ma non è presente una filiera completa che possa garantire la produzione dei capi in USA, c’è una forte dipendenza dall’export. E sono proprio le spedizioni ad avere creato non pochi problemi in tempi di Covid e non solo. Non dimentichiamo che insieme al problema della disponibilità c’è anche quello dei costi: se la manifattura americana se c’era andata in massa per spostarsi verso territori low cost, quella attrattiva resta forte.
Per un grande brand, quindi, tornare a produrre in USA richiederà ancora tempo, anni probabilmente. Per i brand medi e piccoli la situazione è diversa. Per loro gioca un ruolo centrale anche la tecnologia. La “digitalizzazione” della moda e del design 3D ha consentito uno sviluppo del prodotto più rapido ed efficiente. Aziende leader nel settore della tecnologia di produzione come Lectra, Shima Seiki e Twine offrono ora soluzioni praticabili per la produzione automatizzata su ordinazione. Questo tipo di innovazione aiuta le aziende più piccole a crescere, a mantenere la redditività, a differenziare i prodotti e riformulare le strategie di vendita tradizionali.
Il lungo percorso per arrivare al reshoring di massa
Prima che le grandi aziende di abbigliamento possano fare un reshoring completo, dovranno mettersi in gioco per sostenere le fabbriche statunitensi nel loro percorso di modernizzazione. Coinvolgere le fabbriche statunitensi più piccole per la prototipazione, in programmi su ordinazione, offerte in edizione limitata e upcycling, o appoggiarsi alla sperimentazione digitale, come NFT e Web3, preparerà l’industria per il reshoring di massa in futuro.
Detroit nuova capitale del fashion?
Si leggono tante cose su Detroit come nuova capitale del fashion americano. Viene descritta come un fervente hub creativo e produttivo per la moda statunitense, grazie alla presenza di alcuni marchi emergenti che stanno attirando l’attenzione e a un numero crescente di designers che si sono stabiliti in questa città. Quello che è certo è che Detroit, per anni la capitale dell’auto, è pronta a vivere una nuova vita. Un territorio manifatturiero per vocazione, con tanti spazi produttivi lasciati vuoti, prezzi abbordabile e interi quartieri tutti da ripensare.
A Detroit alla fine dell’Ottocento fu fondato il brand Carhartt: uno stile ispirato al workwear, molto legato all’immaginario americano, che adesso i giovani e giovanissimi stanno riscoprendo.
Ma ovviamente non è tutto. Ormai da diversi anni emergono nuovi brandi con sede a Detroit come Deviate e Hope for Flowers, che fanno leva sulla forza creativa di questa città operaia. Una cosa è certa: le cose sono in movimento per la città più grande del Michigan. Ma in molte altre città americane, anche nell’interno, si sta assistendo a situazioni analoghe. Là dove ci sono spazi a prezzi abbordabili e un know how da riscoprire, i creativi sono pronti a scommettere: così anche zone americane che prima della globalizzazione erano occupate dalla manifattura tessile, stanno scoprendo una seconda giovinezza. A volte basta la presenza di qualche vecchio macchinario o di qualcuno disponibile a mettere a disposizione la propria esperienza in un settore ormai scomparso per compiere il miracolo. Non dobbiamo dimenticarci che certe fasi della produzione tessile negli Stati Uniti nessuno sa nemmeno come farle, perché le competenze sono scomparse.
Occhi puntati sul Texas, aspirante capitale della canapa
Non ci può essere manifattura senza parlare di materie prime. Il cotone non basta, gli americani tornano a puntare sulla canapa e in Texas le cose si stanno muovendo velocemente. Dietro le ambizioni texane si nasconde Lucas Evans, 27 anni, scienziato e produttore, che ha deciso di tentare la sua rivoluzione tessile a Taylor, che un tempo rappresentava il più grande mercato interno del cotone del mondo.
La canapa è stata bandita dal Controlled Substances Act nel 1970, quando il governo degli Stati Uniti non è riuscito a distinguerla dalla sua pianta gemella, la marijuana. Ma quando è stato depenalizzatoa nel Farm Bill del 2018, agricoltori come Evans hanno iniziato a esplorare modi per sfruttare il potenziale della pianta. La canapa potrebbe essere una coltura redditizia che richiede meno acqua e sostanze chimiche rispetto al cotone, oltre ad offrire più reddito e autonomia agli agricoltori. A condizione di ricostruire le infrastrutture tessili dormienti americane. Evans ha avviato Texas Hemp Processors nel 2019, quando non c’erano altre strutture legali in Texas che potessero trasformare un raccolto di canapa in biomassa utilizzata per tessuti, materiali da costruzione o isolamento e altro ancora.
E’ stato un pioniere, ma oggi qualche altro operatore si è affacciato questo mercato: Tetra Hemp nella Valle del Rio Grande, Delta Agriculture a Slaton e Loan Star Industrial Materials a Houston. L’anno scorso, Evans e il suo team hanno lavorato 4.000 libbre di canapa, la maggior parte delle quali diventerà materiale da costruzione, e mirano a raggiungere 80.000 quest’anno, con una parte importante dedicata alla fibra. Ma è ancora troppo presto per attrarre l’attenzione dei brand, che hanno bisogno di grandi quantitativi e di una filiera integra per poter cambiare la propria strategia produttiva. Ad esempio Patagonia, che da sempre sostiene i coltivatori americani, compra ancora la sua canapa in Cina. Ma Evans ha dichiarato in una intervista che nel giro di 3 anni sarà pronto per il mercato della moda.
Insomma, una rondine non fa primavera e c’è ancora molto da fare per immaginare che il made in USA possa rispondere alle esigenze del mercato interno. Ma la direzione è sicuramente quella, su questo non c’è dubbio. Ci sono tantissime aree statunitensi che si stanno impegnando per dare il proprio contributo per il ritorno della moda negli USA: l’imperativo non è più consumare e basta ma consumare quello che si è prodotto.
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