Chi resiste alla fast-fashion?

DI SARA FORNARO

Photo by Rio Lecatompessy on Unsplash

 

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Negli ultimi decenni, l’espansione produttiva seguita alla globalizzazione ha reso l’industria della moda tra i primi settori in termini di impatto sociale e di emissioni climalteranti prodotte. La nascita del sistema di produzione cosiddetto della ‘fast fashion’ – ossia la riduzione dei tempi di produzione dei capi di abbigliamento e l’immissione nel mercato di una quantità di merce spropositata a basso costo – ha riconfigurato le scelte dei consumatori, garantendo l’accesso ad abiti sempre più economici e diversificati. Di conseguenza, al calare dei prezzi anche i valori assegnati ai singoli capi sono diminuiti, rendendo, di fatto, quello della moda un mercato di beni ‘usa e getta’.

Eppure, la crisi climatica e la crisi sociale attuali hanno rimesso in discussione l’intero sistema di sviluppo di quella che Zygmunt Bauman aveva definito “società dei consumi”. In questo spazio hanno trovato posto diverse forme di contestazione, da quelle dei movimenti ambientalisti alle iniziative di “buycotting” e di “politica con il portafoglio” dei consumatori. Si tratta di azioni certamente necessarie, ma in cui il terreno della moda ha giocato sempre in posizione sussidiaria. Un ruolo sempre più importante è invece quello delle organizzazioni che si occupano specificatamente di resistenza alla fast-fashion. Mediante la loro attività di sensibilizzazione, di informazione, di denuncia e di assistenza, queste organizzazioni esprimono una varietà di posizioni e di orientamenti legati alla trasformazione del sistema della moda e al cambiamento sociale più in generale.  Le organizzazioni prese in esame sono principalmente otto e sono attive sul territorio italiano e internazionale: Dress the Change, Mani Tese, Oxfam Italia, Fashion Revolution Italia, Greenpeace Italia, Associazione Tessile e Salute, Humana People to People Italia e Fair Cooperativa equosolidale.

Le ricerche condotte su tali organizzazioni dimostrano come queste siano fortemente impegnate sul terreno dell’“altro-consumo”, vale a dire quelle iniziative di produzione e consumo di beni eticamente prodotti allo scopo di ‘riformare’ il mercato e di creare circuiti di commercio alternativi. Ma si parla poco di come queste organizzazioni favoriscano anche pratiche di “anti-consumo”, ossia di limitazione dello spazio della vendita e del consumo dei prodotti, ad esempio sostenendo il riutilizzo dei capi che già si hanno, oppure promuovendo l’upcycling, etc. Queste forme di anti-consumo sono fortemente legate al concetto di decrescita e mirano a creare un’alternativa radicale alla fast-fashion.

Un altro nodo cruciale riguarda l’interpretazione che le organizzazioni di resistenza alla fast-fashion danno al concetto di sostenibilità.  “Sostenibilità” è una parola ampiamente usata (e abusata) ormai in tutte le sfere del mercato. In genere, si usa fare la distinzione tra sostenibilità economica, sociale e ambientale. Ma cosa intendono per “sostenibilità” coloro che si battono in prima linea per salvaguardarla? E quali effetti produce questa cornice interpretativa sulle loro azioni pratiche? 

Il mondo delle organizzazioni di resistenza alla fast-fashion in Italia risulta frammentato. Se in generale l’attenzione nei confronti della sostenibilità è radicata in tutte le organizzazioni, c’è un nodo di fondo che ne limita spesso l’agire. Infatti, le organizzazioni di resistenza alla fast-fashion tendono a interconnettere i tre tipi di sostenibilità insieme, includendo dunque sullo stesso piano la sostenibilità sociale, quella ambientale e quella economica. Ciò però conduce ad una contraddizione per cui, pur di non uscire totalmente dalla sfera di riforma del mercato, le organizzazioni, anche quelle più favorevoli sulla carta all’anti-consumo, ne limitano ampiamente l’adozione e la promozione.

Dall’analisi effettuata, infatti, emerge una varietà di sfumature concettuali che struttura, dunque, lo spazio di resistenza alla fast fashion, senza però consentire a tutti gli orientamenti una realizzazione materiale. Nonostante una predominanza di orientamento all’altro-consumo, all’interno delle organizzazioni l’anti-consumo non è del tutto assente, infatti tra le attività svolte dalle organizzazioni troviamo incoraggiamento all’anti-consumo. Un ulteriore osservazione è la relazione tra altro-consumo e anti-consumo che ci consente di scomporre il concetto di “slow fashion”. In particolare, è possibile individuare due maniere diverse di intendere il significato di “slow”: la prima idea di “slow” intesa come processo di produzione lento, rispettoso dell’ambiente e delle lavoratrici e dei lavoratori; il secondo “slow” inteso prettamente come prolungamento della ‘vita’ del capo di abbigliamento, cioè la maniera di riparare, riutilizzare e riciclare i capi già posseduti, senza gettarli o acquistarne di nuovi, dunque rendendo il processo di utilizzo del capo più ‘lento’. Alla prima accezione di “slow fashion” è possibile associare l’idea di “altro-consumo”, mentre alla seconda quella di “anti-consumo”.

Infine, prendendo come punto di riferimento la domanda stessa della tesi, cioè altro-consumo o anti-consumo? Ad oggi possiamo rispondere che senza alcun dubbio la strada intrapresa dalle organizzazioni è quella dell’altro-consumo come sostenuto nella tesi di Francesca Forno e Paolo Graziano nel libro “Il consumo critico”. Ma è vero pure che l’anti-consumo non è un orizzonte del tutto utopico, ma apre prefigurativamente la porta a nuovi scenari, e seppur in una piccola percentuale, esso è presente nelle visioni di resistenza alla fast fashion da parte delle organizzazioni esaminate. Inoltre, il ruolo delle organizzazioni che compongono lo spazio di resistenza alla fast-fashion è molto importante, ma ancora più importante dovrà essere il ruolo delle forze politiche, di costringere l’industria a adottare meccanismi di produzione più rispettosi dei diritti umani e ambientali.

Titolo tesi: Sara Fornaro, “Altro-consumo o anti-consumo? Forme di resistenza alla Fast-Fashion nelle organizzazioni di consumo critico in Italia”, facoltà di Scienze Politiche e Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Siena.

BIOGRAFIA
SARA FORNARO, 25 ANNI, SICILIANA, LAUREATA IN SCIENZE POLITICHE E STUDI INTERNAZIONALI ALL’UNIVERSITÀ DI SIENA, ATTUALMENTE STUDENTESSA MAGISTRALE AL RISE DELL’UNIVERSITÀ DI FIRENZE. DAL 2018, DOPO LA VISIONE DEL DOCUMENTARIO “THE TRUE COST” HO INIZIATO A DOCUMENTARMI SUI DISASTRI DELL’INDUSTRIA DELLA MODA E NON SOLO, COSÌ HO DECISO DI DOCUMENTARMI E ATTIVARMI PERSONALMENTE PER TUTTE LE BATTAGLIE SOCIALI E AMBIENTALI.

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