Entro il 2030 si stima che saranno prodotte circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili all’anno e il post industrial textile waste gioca un ruolo importante in questa grande massa di materiali: sono gli scarti che derivano dalle varie fasi della produzione, compresa la fase della confezione. Secondo i dati raccolti anche dalla Commissione Europea, circa il 25% del tessuto rimane sul tavolo di taglio. Sono cifre destinate a scendere con le tecniche di progettazione zero waste, ma ci vorrà del tempo prima che siano applicate dall’industria in maniera e possano avere un impatto sui numeri.

La Cambogia è un Paese importante nella geografia produttiva della moda, che porta ancora i segni di un triste passato: è l’ottavo produttore al mondo di abbigliamento e calzature e proprio in questo campo è impiegato l’80% della giovane popolazione. Le possibilità di riscatto per queste persone passano anche dalla capacità della principale industria produttiva del Paese di offrire opportunità concrete, incrementando salari e sicurezza e su questo c’è ancora molto da lavorare. Ma in questo percorso la circolarità può giocare un ruolo importante.

Il riciclo degli scarti: un’opportunità concreta

Nel Paese operano 767 fabbriche di abbigliamento e 131 fabbriche di calzature. In Cambogia si stima che ammontino a circa 186 mila tonnellate la quantità di scarti tessili post industrial, che vengono prodotti dall’industria della confezione. Si tratta di stime perché è molto difficile mappare e ricevere dati reali sull’entità degli scarti. E’ infatti presente una economia informale che gestisce questi materiali e che li destina a discariche non autorizzate oppure all’industria della costruzioni. Proprio così: gli abiti usati vengono bruciati nelle fornaci all’interno delle quali si producono i mattoni che servono per l’edilizia. Gli abiti hanno infatti un potere termico che può essere sfruttato e che diventa prezioso in un Paese povero, dove approvvigionarsi di energia o combustibile può essere oneroso, soprattutto dopo il Covid.

Bruciare questi materiali però, significa innanzitutto creare un danno ambientale, per le emissioni che vengono prodotte e che vengono inalate dai lavoratori, che spesso non dispongono di nessun dispositivo di protezione. Queste pratiche sono state denunciate, ma nelle aree meno centrali rappresentano ancora la normalità. L’industria potrebbe invece ricavare dalla raccolta di questi scarti materie prime seconde da reimpiegare nel settore. Però la presenza di questo business informale potrebbe rappresentare un ostacolo allo sviluppo di processi circolari: i proprietari delle fabbriche hanno bisogno di investimenti adeguati per cambiare abitudine consolidate.

Innanzitutto perché gli scarti tessili delle confezioni hanno un valore sul mercato: si va da 0,01 a 0,03 dollari, come si legge nel report di Asia Garment Hub. Sono soldi che entrano nelle casse delle aziende velocemente e che non richiedono una gestione particolare: gli scarti non devono essere selezionati, devono solo essere raccolti e caricati sui camion che li porteranno via. E questo è proprio uno degli obiettivi del progetto promosso dalla Circular Fashion Partnership.

Il progetto di Circular Fashion Partnership

All’inizio del 2023 l’organizzazione internazionale Global Fashion Agenda ha avvitao un progetto per stimolare la circolarità in Cambogia nei settori tessili e abbigliamento. Il progetto si inserisce all’interno della Circular Fashion Partnership, già sperimentata in Bangladesh, con risultati interessanti. In Cambogia il progetto è realizzato in collaborazione con l’azienda tedesca GIZ, già presente nel Paese con alcune iniziative. Il primo step è focalizzato sulla raccolta e sul riciclaggio degli scarti post industrial, per massimizzarne il valore. La priorità è quella di stimolare il riciclaggio da tessuto a tessuto per reintrodurre i materiali “di scarto” nei prodotti di moda.

Ad oggi il progetto è portato avanti da 13 brand internazionali che hanno nel Paese la propria catena di fornitura, da 23 produttori, 2 fornitori di servizio e 2 aziende di riciclaggio. Una di queste aziende, ha intenzione di aprire un impianto di riciclaggio in Cambogia.

GIZ ha condotto una indagine su 38 fabbriche per identificare la produzione e la composizione dei rifiuti. I risultati di questo sondaggio hanno mostrato che la composizione dei rifiuti delle fabbriche di abbigliamento è pari al 21% di cotone (100%), 16% miscele a base di cotone, 35% sono 100% poliestere o miscele a base di poliestere e il resto sono altre miste cellulosiche e sintetiche.

Il progetto pilota prevede la formazione dei produttori sulle pratiche di gestione sostenibile dei rifiuti, compresa la separazione dei rifiuti post-produzione secondo le specifiche del riciclatore e il monitoraggio digitale degli stessi, che permette anche di tracciarli, utilizzando il sistema di Reverse Resources, per capire anche cosa è disponibile e dove. I materiali raccolti e selezionati sono anche oggetto di sperimentazione per valutarne un possibile utilizzo in ambito moda. Il progetto mira a costruire una filiera completa per la gestione degli scarti e dovrebbe concludersi a giugno 2024.

A chi appartiene lo scarto?

Il progetto di Circular Fashion Partnership in Cambogia arriva dopo quello che si è concluso in Bangladesh e sarà seguito da un progetto analogo in Vietnam. Anche in Bangladesh esiste un mercato informale per la raccolta dei rifiuti tessili: quelli in cotone sono ritenuti particolarmente interessanti per l’incenerimento. Ma anche questa pratica deve essere fermata per dare spazio al riciclo. Uno dei punti da chiarire è quello della proprietà dello scarto di confezione. A chi appartiene? Al brand oppure al confezionatore? E’ evidente che l’azienda di confezione vede nella vendita degli scarti l’opportunità di incrementare le entrate, anche se sono minime. Il brand se vuole ritirare i propri scarti, deve anche farsi carico della fase di raccolta e di riciclo. Riuscire a trovare un accordo interessante per entrambe le parti su questo punto, potrebbe essere decisivo per dare slancio a una circolarità reale del settore. A condizione di riuscire anche ad avere un sistema di tracciabilità dei rifiuti tessili che comprenda anche la loro composizione e provenienza. Senza queste informazioni è difficile mettere in piedi un filiera di riciclo textile-to-textile.

Analizzando queste esperienze ci si rende conto come una serie di problemi e di ostacoli alla creazione di un sistema circolare siano gli stessi ovunque e che possano essere risolti con ricette simili: investimenti, incentivi e tracciabilità. Solo così si potrà creare un mercato della materia prima seconda che stimoli l’impiego di questi materiali. E senza un mercato in grado di riutilizzare queste scarti, il riciclo non è un’azione sufficiente.

Cover Foto di Roth Chanvirak su Unsplash