H&M conquista il podio della trasparenza: secondo il Transparency Index 2020 è il brand svedese a posizionarsi al primo posto nella classifica di Fashion Revolution. Come di consueto in occasione della Fashion Revolution Week, che si sta svolgendo in questi giorni, l’organizzazione internazionale Fashion Revolution ha lanciato il suo Transparency Index, la quinta edizione di uno strumento fondamentale per fare chiarezza in quello che sta succedendo nel mondo della moda.

Sono 250 i brand che sono stati analizzati quest’anno e in generale possiamo dire che la strada da fare è ancora molto lunga: sono 250 i punti che sono oggetto di valutazione all’interno del rapporto e il punteggio medio complessivo raggiunto dai marchi è del 23%.

H&M ha ottenuto il punteggio più alto di quest’anno, centrando il 73% degli obiettivi; il colosso svedese è seguito da C&A, con il 70%, e Adidas/Reebok, con il 69%. Patagonia scivola in quinta posizione, in compagnia di Marks & Spencer. Tra i brand del lusso, Gucci è quello che si posiziona meglio: ha centrato il 48% degli obiettivi, con un miglioramento importante rispetto al 2019, quando si era fermato al 40%. I brand che non hanno ottenuto punteggio sono quelli che non hanno preso parte all’indagine compilando il questionario.

La prestazione di H&M è valutata a livello di gruppo, prendendo quindi in considerazione anche gli altri marchi della galassia: Other Stories, Arket, Monki. Weekday. Una scalata che non è casuale: in questi mesi H&M ha lavorato moltissimo sul rilancio della propria immagine e sul concetto di sostenibilità. Fino a qualche anno fa sembrava che l’azienda fosse in difficoltà, ma il gruppo si è messo al lavoro e ha deciso di impegnarsi per seguire il trend della sostenibilità. Una strategia attentamente pianificata che ha portato i suoi frutti, ma non ha un sapore autentico. Potremmo dire che H&M ha fatto bene i compiti e che ha seguito con attenzione quanto previsto dal Transparency Index.

Cos’è il Transparency Index e cosa misura

L’indagine di Fashion Revolution misura la trasparenza dei brand analizzando cinque aspetti particolari (abbiamo parlato di questo tema anche in EP02 Trasparenti ma non troppo):

  • la policy e committment
  • la governance: ad esempio si valuta com’è organizzata la gestione della sostenibilità all’interno dell’azienda
  • La tracciabilità
  • Know, Show, Fix: due diligence, risoluzione dei problemi sia al proprio interno che con i fornitori
  • Spotlight: circolarità, gender gap, gestione dei rifiuti. Aspetti che adesso vengono valutati e attribuiscono un punteggio aggiuntivo, ma che nei prossimi anni potrebbero essere considerati a parte. 

L’indagine non va ad esaminare quanto il brand è etico o sostenibile, viene precisato nella premessa del rapporto. Probabilmente quel primo posto qualche imbarazzo l’ha creato, viene da pensare. Il Transparency Index valuta solo l’aspetto della trasparenza, quindi “la divulgazione al pubblico di dati e informazioni credibili, completi e comparabili sulle catene di approvvigionamento della moda, sulle pratiche commerciali e sugli impatti di tali pratiche su lavoratori, comunità e ambiente“.

Il rapporto in realtà nella sezione “Spotlight” prende in considerazione alcune buone pratiche che vanno a toccare anche il tema etico e ambientale: emerge ad esempio che solo cinque tra i brand analizzati hanno preso impegni chiari per garantire alla catena produttiva un salario minino accettabile. Vengono anche segnalati alcuni brand che hanno reso disponibili i dati sulla loro produzione di rifiuti, come ad esempio Inditex, Ovs e Benetton. Ma non sono oggetto di valutazione specifica. Sarebbe auspicabile che nelle prossime edizioni queste informazioni avessero un maggior valore in fase di elaborazione del punteggio finale.

Un quadro a macchia di leopardo

L’analisi sui cinque aspetti fa emergere che in generale i brand hanno un comportamento a “macchia di leopardo”: presidiano alcuni aspetti, ne tralasciano altri. Pochi hanno una comunicazione chiara e comprensibile, molti fanno ricordo a uno storytelling che crea confusione nel consumatore. Fashion Revolution fa notare che, almeno per gli aspetti chiave, sarebbe da prediligere l’essenzialità della comunicazione, senza usare parole che alla fine sanno di greenwashing.

Come si nota dallo schema sintetico (tutte le grafiche sono state prese dal rapporto) la tracciabilità è uno degli aspetti dove i brand sono più reticenti. Pochi condividono in maniera trasparente la catena di fornitura e della propria produzione e anche chi lo fa evita di dire tutto.

La provenienza della materia prima: per molti brand una storia nascosta

Sono numerosi gli step di produzione che portano alla realizzazione di un capo e non su tutti c’è la stesa disponibilità alla condivisione delle informazioni.

E’ aumentato il numero di brand che ha condiviso sui propri siti internet alcune informazioni sulla catena di produzione dei capi di abbigliamento: per intenderci, il 40% dei brand (101) per l’esattezza, fornisce informazioni su chi effettua il taglio, l’assemblaggio, la cucitura del capo.

Solo 60 brand (il 24%) fornisce informazioni sulla catena di fornitura della lavorazione del materiale: per intenderci le fasi di filatura, tessitura, finissaggio se si parla di tessuto, oppure sulla fase dei trattamenti e della concia per gli accessori.

Ma il vero segreto è la provenienza della materia prima: solo il 7% dei brand (18 per l’esattezza, e nella lista c’è anche H&M) indica chi sono i propri fornitori. Se è vero che la comunicazione della sostenibilità di incentra molte volte solo sulla scelta di un materiale che possa essere ritenuto sostenibile (riciclato, organico, animal safe, etc) è molto strano che proprio su uno dei punti di forza della comunicazione di tanti brand ci sia questa reticenza.

Anche fase di lavorazione della materia prima, dove c’è il grosso impatto della chimica, l’omissione lascia perplessi. Poi analizzando meglio il rapporto si nota che solo il 40% dei brand rende disponibile la propria PRSL (Product Restricted Substances List), che riguarda la gestione delle sostanze chimiche e che stabilisce in maniera volontaria i limiti che il brand si pone per misurare la presenza di queste sostanze nei propri prodotti.

A quanto pare nel controllo e nella trasparenza su queste fasi ci sono ancora alcune criticità, ma sono proprio queste le fasi più delicate e che hanno un maggior impatto ambientale. Per raccontare il ciclo di vita del prodotto, queste fasi devono essere ben monitorate.

Lusso e trasparenza: un matrimonio che non s’ha (ancora) da fare

Un ultimo punto di riflessione credo che lo meriti la scarsa attitudine dei brand del lusso alla trasparenza, almeno così come è intesa dal Transparency Index. Come dicevamo Gucci, con il suo indice di trasparenza al 48% è il primo classificato, ma è al 28esimo posto della classifica. Il punteggio migliore lo ha raggiunto nella voce “Policy and Commitment”, dove ha totalizzato il 100% del punteggio. Sulle altre voci, la situazione è molto diversa. Perché per i brand del lusso la trasparenza è così poco interessante?

Per anni ci hanno insegnato che i brand davvero forti non hanno necessità di adeguarsi a paradigmi esterni, la forza della loro reputazione supera qualsiasi altra valutazione nel consumatore. Non so se questo scenario sarà quello con il quale faremo i conti anche nei prossimi mesi.

L’ultimo rapporto “Brand Finance Apparel“, appena uscito, misura il valore finanziario dei marchi globali: Gucci è al secondo posto, con una valutazione di 17,6 miliardi di dollari e un incremento del 20%. Al primo posto c’è Nike, con 34,7 miliari di dollari e un incremento del 7%. Ma il rapporto lancia anche un avvertimento: la crisi da Coronavirus potrebbe portare a una diminuzione del 20% del valore dei marchi, molto dipenderà da come porteranno avanti la gestione della crisi.

Quanto è importante la trasparenza in tempi di Coronavirus?

Il nostro mondo sta cambiando, l’approccio al consumo uscirà stravolto dall’emergenza Covid. I brand pensano a cali di fatturato a due cifre, ci sarà una selezione fortissima, solo i più forti sopravviveranno (ne abbiamo parlato anche nel podcast EP11 Lavorare per il fast fashion in tempi di CoronaVirus). E chi saranno i più forti? Quelli che hanno una base finanziaria più solida, senza dubbio.

Ma soprattutto saranno i brand che sapranno creare empatia con i propri consumatori, che saranno in grado di raccontarsi, di condividere informazioni. Una cosa che questo periodo lascerà sicuramente in tutti noi è un’assoluta fame di informazioni serie, verificate, che ci fanno capire dove stiamo andando e cosa stiamo facendo. Forse sarà la lezione che impareremo davvero, perché nessuno vuole più sentirsi una barca in mezzo al mare in balia delle onde, ma vorremo avere ben chiara la direzione e avere anche una cartina per verificare da soli il proprio percorso.

Grazie a Fashion Revolution per questo lavoro e buona Fashion Revolution week a tutti!