Chi di noi non ha nel proprio armadio almeno un paio di jeans? Eppure il loro costo ambientale rappresenta il rovescio della medaglia di un sistema di produzione che ha un grosso impatto legato soprattutto all’uso del cotone e delle sostanze chimiche necessarie per produrre il denim. Ne parleremo anche con l’ospite di questo episodio: Simon Giuliani, direttore marketing di Candiani, l’ultima fabbrica verticale di denim presente nell’Occidente. Cosa vuol dire? Che lo stabilimento ospita l’intero processo di lavorazione, dalla materia prima alla produzione del tessuto.

L’insostenibilità del denim

credit: Candiani

Per decenni il denim ha assunto quel suo colore caratteristico grazie all’utilizzo dell’indaco, un antico  colorante usato da secoli derivato da  una pianta erbacea  conosciuta come “guado”. Per far risultare i jeans del colore che tutti conosciamo, viene utilizzato l’indaco: un colorante sintetico molto dannoso. Inoltre, vengono utilizzati alcuni metalli pesanti vengono utilizzati per far si che l’indaco si dissolva.

Negli Stati Uniti un’impreditrice, Sarah Bellos, ha aperto un’azienda, Stony Creek Colors, per produrre coloranti naturali provenienti dalle piante. Coltiva anche l’indaco e alcuni marchi, come ad esempio Patagonia, hanno prodotto qualche modello con questo colorante naturale. Ma per la produzione industriale devono essere percorse altre strade. La spagnola Jenealogia, ad esempio, utilizza laser e ozono con l’obiettivo di arrivare entro il 2025 a una tintura del denim eliminando i consumi idrici. Ma la ricerca deve ancora fare molti progressi in questa direzione.

Denim e cotone: una relazione complicata

Il denim assorbe il 35% della produzione mondiale di cotone: la scelta della materia prima è quindi fondamentale per produrre un denim che possa essere ritenuto più sostenibile. Quindi è necessario partire proprio dalla materia prima per ridurre l’impatto dei nostri jeans. Per farlo, innanzitutto è necessario selezionare tipologie di cotone che garantiscono un miglioramento ambientale o sociale rispetto agli impatti della produzione convenzionale: parliamo del “Preferred Cotton”

Textile Exchange e il report “2025 Sustainable Cotton Challenge”

E’ appena uscito il secondo rapporto annuale di Textile Exchange “2025 Sustainable Cotton Challenge”, che cerca di fotografare come procede l’uso dei “Preferred Cotton”. L’obiettivo è spingere i brand ad abbandonare il cotone tradizionale entro il 2025, per aumentare la capacità reddituale dei piccoli agricoltori, eliminare i pesticidi e i fertilizzanti altamente pericolosi, ridurre il consumo di acqua e migliorare la qualità dell’acqua e la salute del suolo.

Cotton Warehouse: credit Candiani

Grazie alla collaborazione di 40 tra i maggiori brand del mondo, l’indagine offre una panoramica su come le aziende stanno utilizzando per le proprie produzioni cotoni organici, come quelli certificati  Organic Content Standard (OCS) o Global Cotton Textile Standard (GOTS), oppure cotoni che provengono da piantagioni che pongono particolare attenzione sull’uso sostenibile del suolo e sui diritti dei lavoratori come quelli Fairtrade cotton o Better Cotton Initiative (BCI). Senza dimenticare il cotone riciclato Global Recycled Standard (GRS) or the Recycled Claim Standard (RCS).

L’impatto del Corona Virus si sta facendo sentire anche sulla produzione del cotone: i primi a risentirne sono i coltivatori, che nelle varie zone del mondo stanno fronteggiando problemi per l’accesso all’acqua o per le restrizioni legate al lockdown. Ma sopratutto il rallentamento della produzione del settore moda sta creando delle sovrapproduzioni che stanno facendo crollare il costo della materia prima. L’International Cotton Advisory afferma che nel maggio 2020 i prezzi del cotone sono 0,71 dollari per la produzione 2019/2020, ma che scenderanno a 0,56 dollari per la produzione 2020/2021, il prezzo più basso degli ultimi 12 anni. A fare i conti con il problema degli “overstocked”, l’eccesso di scorte, saranno naturalmente i soggetti più vulnerabili della filiera: i coltivatori. 

Oggi, il 22 % del cotone mondiale è più sostenibile. Entro il 2025 Textile Exchange auspica che oltre il 50 percento del cotone mondiale venga convertito in metodi di coltivazione più sostenibili. Nel 2019 l’80,3% degli intervistati ha utilizzato “preferred cotton”, mentre il 19,7% ha utilizzato il cotone convenzionale. Nel 2018 è stato il 33 % ad utilizzare cotone convenzionale. Nella categoria del “preferred cotton”, il cotone BCI è quello ampiamente già utilizzato: lo usano il 65,3% degli intervistati.

Il cotone riciclato può essere un’alternativa?

Il cotone può essere riciclato sia meccanicamente che chimicamente; tenete conto che quello riciclato chimicamente dà come risultato finale un “cellulosico artificiale”, non un “cotone”.

Ci sono esperienze interessanti di cui parlo nel podcast: Alliance for responsible denim, Evrnu, Re:newcell, Recover

E poi arriva il jeans biodegradabile: Coreva di Candiani

Ma oltre al riciclo, la nuova frontiera della moda sostenibile è la biodegradabilità: una volta terminato il suo ciclo di vita, il prodotto si distrugge in maniera naturale e torna in natura. Ci sono esperienze molto interessanti in questa direzione e proprio di una di queste parleremo in questo episodio: si chiama Coreva ed è il denim biodegradabile prodotto da Candiani

Si tratta di un’azienda manifatturiera che fa parte di quella straordinaria catena di fornitura che si trova in Italia, fatta di esperienza e di valori. “L’ultima favola del Made in Italy” l’ha definita Simon Giuliani, direttore marketing di Candiani nel corso di questa intervista. Sentite perché.

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