Produrre nuovi capi non è più sostenibile per l’ambiente: ormai il mondo della moda ha scoperto il second-hand, l’upcycling, il recycling e intende cavalcare questo trend. E se ci fosse anche la crisi collegata alla pandemia alla base di questo improvviso amore? Andando a intrufolarsi in un mercato che era presidiato da giovani designer, brand emergenti, creativi che creano prodotti artigianali, i grandi brand rischiano di cambiare totalmente le regole del gioco e di trasformare in un business d’oro quello che fino ad oggi era invece un settore dove stavano trovando spazio nuove idee creative.

Negli USA è nato Display Copy un magazine dedicato al vintage e all’upcycling, dove è anche possibile fare acquisti.

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Ne ha parlato il New York Times in un articolo dove ha anche fatto un breve riassunto di tutti i brand che negli ultimi mesi hanno messo in campo iniziative legate al second-hand e all’upcycling (di Upcycling abbiamo parlato nell’episodio 12 del podcast: “La magia dell’upcycling: trasformare gli scarti in qualcosa di unico).

Secondo gli studi più recenti, il mercato del second-hand è cresciuto moltissimo durante la pandemia ed è addirittura destinato a raggiungere i volumi di vendita del fast fashion entro il 2029. Grande interesse, ampio margine di crescita: ecco che arrivano i brand, a cercare di mettere il cappello anche su queste iniziative.

Un viaggio veloce nel second-hand del lusso

Forse l’ultima in ordine di tempo è stata Miu Miu con il suo progetto Upcycled: una collezione di abiti che vanno dagli anni ’40 agli anni ’70 reintepretati dal team creativo del brand.

Pochi giorni prima Levi’s aveva lanciato il programma Levi’s Secondhand, che prevede per i consumatori la possibilità di portare indietro i propri jeans usati, che saranno riparati e messi di nuovo in vendita.

Anche Maison Margiela ha voluto tentare l’avventura con Recicla Line , una collezione realizzata con abiti di John Galliano trovati in negozi di vintage riadattati dai creativi del brand.

E poi Gucci, che si è alleato con The Realreal per vendere on-line i propri capi di seconda mano: d’altra parte se il mercato del vintage suscita tutto questo interessa e se i capi di Gucci sono l’oggetto del desiderio, perché lasciare che siano altri a fare business su questo mercato?

La lista potrebbe continuare a lungo, perché un po’ tutti stanno affacciandosi su questo mercato.

Ma senza il mercatino il second-hand è ancora così bello?

La domanda sorge spontanea: cosa rende speciale l’acquisto nei mercatini, in quei piccoli negozi anche un po’ polverosi, dove si trovano pezzi di passato, immagini di donne d’altre tempi, dove si può anche giocare a mettersi nei panni di un’altra donna mentre si è nel camerino?

Il gusto della scoperta, di cercare qualcosa di prezioso in mezzo a una massa di cose che sembrano senza valore. Nel second hand è difficile trovare abiti dei marchi del fast fashion: la loro pessima qualità li rende spesso inutilizzabili per un secondo acquisto.

Per scovare “gioielli” in un negozio vintage o in un charity shop bisogna avere uno sguardo attento, bisogna sapere riconoscere tessuti, tagli, qualità. E poi si può venire via fiere con il proprio sacchetto, convinte di aver fatto un grande affare. E’ così che si ama un capo di seconda mano: per amarlo bisogna scovarlo.

Second-hand strategy: la nuova frontiera del greenwashing?

E’ l’autenticità la chiave di tutte le esperienze che ci fanno stare meglio. Se manca quella, la magia scompare. Temo che l’upcycling diventerà il nuovo mantra dei brand, che toglieranno ogni magia a questa parola, che la renderanno solo un altro modo di raccontare quanto sono buoni e quanto si impegnano per salvare il pianeta. Ma in realtà è solo una strategia commerciale.