Si chiama EPR, Responsabilità Estesa del Produttore ed è una normativa europea che in fase di applicazione avrà un forte impatto sul sistema moda. Praticamente si tratta di attribuire a chi immette i prodotti in commercio tutti i costi ambientali associati alla gestione del fase finale del ciclo di vita del prodotto, quando diventa un rifiuto, facendosi quindi carico delle operazioni di raccolta differenziata, cernita e trattamento. Praticamente sarà il brand o il produttore che lo mette sul mercato a doversene fare carico. Non è niente di straordinario, in altri settori già sono in vigore normative di questo tipo: ad esempio quando acquistiamo un elettrodomestico versiamo il contributo RAEE, che serve proprio come contributo allo smaltimento. Ma l’applicazione al settore moda non sarà così semplice.

Innanzitutto per i volumi di abiti e accessori moda che ognuno di noi acquista, che stanno creando una quantità di rifiuti impressionante, che sta invadendo il mondo. E poi perché ancora non ci sono sistemi di gestione e riciclo del rifiuto tessile che possano ritenersi efficienti e tali da garantire lo smaltimento della quantità di abiti di cui ci liberiamo ogni anno. E’ uno di quei casi in cui solo una normativa (ben fatta) potrà sollecitare il cambiamento di visione delle aziende, che saranno costrette per legge a immaginare la progettazione dei propri prodotti in un’ottica di economia circolare.

La Francia, unici mondo ad avere una normativa EPR

La Francia è l’unico paese in Europa ad avere una normativa EPR per il settore moda, che coinvolge abbigliamento, biancheria e scarpe, con lo schema ECOTLC. Ogni anno le aziende devono dichiarare il volume degli articoli che hanno immesso sul mercato l’anno precedente, per calcolare il contributo annuale che dovranno versare. La forbice è ampia: si va da 0,01 a 2 euro ad articolo. I fondi raccolti vengono poi utilizzati per sostenere campagne di sensibilizzazione o per le organizzazioni che curano lo smaltimento e che rispettano determinati requisiti.

Negli ultimi giorni la Francia è andata oltre e ha deciso di ottenere anche il primato di primo paese al mondo a dotarsi di una normativa anti-spreco, che vieterà ai brand del fashion di distruggere gli stock di invenduto. Una pratica molto frequente, che è costata caro in passato in termini di immagine a Burberry e ad H&M. Secondo il primo ministro francese Edouard Philippe ogni anno solo in Francia vengono distrutti 650 milioni di euro di prodotti praticamente nuovi e invenduti. Una pessima abitudine che adesso in Francia verrà soppressa per legge.

La Gran Bretagna non sta a guardare

La Gran Bretagna non sta a guardare e sta portando avanti una proposta normativa per prendere una decisa posizione contro il fast fashion. La Commissione parlamentare ambientale ha pubblicato una relazione che è una fotografia attenta che punta il dito contro il modello di consumo del fast fashion mettendone in luce gli incredibili costi ambientali: inquinamento, rilascio di microplastiche, consumo del suolo e delle acque. Ma anche diritti: la Commissione ha anche puntato il dito sulle condizioni di schiavitù create dal fast fashion. Nessun timore di fare affermazioni poco gradite ai grandi colossi inglesi del fashion come Burberry, Asos, Mark & Spencer, la Gran Bretagna vuole combattere la moda usa-e-getta.

Quali soluzioni vengon proposte? innanzitutto creare regimi fiscali differenti per chi utilizza materiali riciclai o si impegna nella progettazione in ottica di eco-design. E poi si propone anche l’introduzione di una tassa che permetta di creare un plafond da utilizzare per stimolare progetti innovativi: se su ogni capo venduto nel Regno Unito venisse applicata un’imposta di un centesimo di sterlina, ogni anno il Governo potrebbe avere a disposizione 35 milioni di sterline

Perché la EPR può essere un’opportunità

Dal 2025 nei paesi europei sarà obbligatoria la raccolta differenziata di prodotti tessili. Questo significa che ci sarà una grandissima quantità di materiali che potranno essere riciclati o riusati. Per sostenere questa transizione la UE ha varato un grande piano d’azione multisettoriale, il Green Deal, che metterà a disposizione le risorse per fare ricerca e cogliere le opportunità offerte dalla transizione da un’economia lineare a un’economia circolare. Trovare delle soluzioni di riciclo efficienti, con materiali che possano essere impiegati, è fondamentale. La spinta della normativa può essere decisiva: teniamo conto che fino ad oggi la gran parte degli abiti usati finisce in Africa. Alcuni paesi africani stanno diventando una grande discarica di tessili e stanno chiudendo le frontiere ai tessili usati: anche loro hanno un obiettivo preciso e cioè quello di trovare il modo di riciclare questi materiali, di trarre un beneficio da anni di sfruttamento.

E in Italia cosa sta succedendo?

Per l’Italia molto dipende, come sempre, da come sarà scritta la legge con la quale le imprese dovranno fare i conti. La Direttiva Europea 851/2018 sulla responsabilità estesa del produttore deve ancora essere recepita in Italia. Nei mesi scorsi il Ministero dell’Ambiente ha avviato una serie di colloqui con le forze economiche per capire quali sono le esigenze dei vari settori. Sono numerosi gli interessi in gioco: innanzitutto c’è un comparto di imprese che già lavorano al recupero e alla selezione dei tessili usati che potrebbero essere bloccati da una normativa che non tiene conto delle loro esigenze. Però dall’altra c’è la spinta di chi vende prodotti nuovi, di fatto quelle imprese che si dovranno fare carico della nuova normativa. La soluzione francese può essere una strada da intraprendere anche in Italia? Teniamo conto che in Francia i tessili sono stati oggetto di una normativa ad hoc, non sono stati inseriti in una normativa multisettoriale. Questo anche per focalizzarsi sulle esigenze del settore e non creare calderoni confusi con norme generali che creano confusione in fase di applicazione. Insomma, c’è da tenere gli occhi aperti.