Che fine fanno i nostri abiti usati, quelli che non indossiamo più? che fine fanno gli abiti invenduti: quelli che si creano per la sovrapproduzione, ma anche tutti gli abiti “scaduti”? Un abito può scadere, proprio così: se per esempio si tratta di una t-shirt o di un gadget tessile realizzato per un evento speciale, passato l’evento non ha più senso di esistere. Ho trovato cifre diverse sulla quantità di rifiuti tessili che vengono prodotti nel mondo: è un numero enorme, che si aggira intono ai 60 miliardi di chilogrammi. Un numero che non accenna a diminuire, anzi secondo le previsioni questa invasione non si fermerà nei prossimi anni. Negli ultimi 20 anni il consumo di abiti in Europa è cresciuto del 40%, ma l’utilizzo medio dei casi si è incredibilmente ridotto.

Questa enorme quantità di rifiuti tessili rappresenta un problema ambientale e sociale serio, che può creare però nuove opportunità (naturalmente ridimensionando i numeri). Ci sono organizzazioni che si occupano di economia circolare in Africa e che stanno mettendo in piedi progetti interessanti, che coinvolgono la popolazione locale in nuovi modelli di sviluppo circolari. La pandemia ha reso più complicato far crescere queste iniziative, che comunque stanno andando avanti: se i rifiuti sono destinati a tornare materia prima seconda ed essere riutilizzati, le opportunità possono essere enormi.

Abiti usati = opportunità economica

Dove finiscono i nostri abiti usati? Secondo gli ultimi dati disponibili (Observatory of Economic Complexity 2021) i paesi africani importano il 30% degli abiti usati mondiali: sono cifre ufficiali, quindi quelle reali sono sicuramente più alte. Secondo un rapporto dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale USAid, solo nell’Africa orientale il mercato dell’usato raggiunge i 230 milioni di dollari di profitti e creano un totale di 355mila posti di lavoro. Gli abiti usati muovono un pezzo importante di economia in questi Paesi: Tanzania, Ghana, Kenya, Nigeria, solo per fare alcuni nomi, in questo sistema riescono a generare ricavi (più o meno dichiarati) irrinunciabili, perché non ci sono molte alternative.

In generale il sistema moda ci pone di fronte a un modello produttivo che vede concentrate le fasi di design del prodotto, la commercializzazione e il consumo nei paesi occidentali e invece la fase di produzione e fine vita nei paesi in via di sviluppo: questo crea una forte asimmetria e di fatto rende necessario ai Paesi poveri fare i conti con l’impatto ambientale e sociale dell’industria del fashion. Questi Paesi non hanno scelta: le loro fragili economie devono accettare certi compromessi per restare presenti sul mercato. Quando si parla di “colonizzazione” ci si riferisce proprio a questo.

Il soffocamento dell’industria creativa locale

Sui mercati africani non solo arrivano quantità enormi di abiti destinati all’incenerimento, con i relativi danni ambientali. L’invasione di abiti di seconda mano ha anche come effetto quello di soffocare una industria creativa locale che non riesce a trovare spazio per crescere: il modello culturale “di importazione”, con abiti a poco prezzo venduti negli enormi mercati di seconda mano, non lascia spazio agli artigiani e ai designer locali di esprimere la propria creatività.

E’ difficile sintetizzare in poche parole tutte le cose che ho letto e le persone con le quali sono entrata in contatto negli ultimi mesi. Per realizzare il documentario “Stracci” (con la regia di Tommaso Santi, prodotto da Kove, che ho collaborato a scrivere) mi sono immersa in questo mondo, scoprendo storie bellissime, ma anche dolorose.

La “mistery box

Mediamente gli abiti usati raggiungono l’Africa chiusi in balle da 45 kg dal contenuto misterioso. Arrivano qui dall’Europa, dagli USA, dalla Corea, dal Giappone. I Paesi ricchi, una volta selezionati i capi usati di migliore qualità che vengono venduti sul mercato interno, inviano il resto in Africa. Queste piccole balle vengono acquistate da dei commercianti locali, che sperano di trovare al loro interno materiale di una qualità passabile, che possa essere venduto al mercato. Aprono le balle, fanno la cernita, sistemano quello che è recuperabile, gettano quello che di fatto è un rifiuto. Purtroppo, con l’avanzare del fast fashion, queste “mistery box” sono sempre più deludenti.

Il boom del second-hand che si sta registrando nei Paesi Occidentali, ha un importante riflesso su quello che viene esportato in Africa: i capi migliori sono destinati al mercato occidentale e vengono esportati solo i capi di qualità peggiore. Le balle riservano quindi brutte sorprese e i commercianti locali vedono ridotte le proprie entrate in maniera drastica.

Seguendo i principi dell’economia circolare, il valore dei materiali deve essere preservato il più a lungo possibile ed è possibile farlo in due modi: allungando la vita dei prodotti e inserendoli in un processo di riuso e di riciclo. Solo così può essere diminuita la quantità di rifiuti tessili che viene prodotta.

https://deadwhitemansclothes.org/

In Ghana con The OR Foundation

The OR Foundation opera in Ghana, dove si trova il mercato di Kantamanto, uno dei più grandi dell’Africa. La sua carismatica fondatrice Liz Rickets (che è anche intervistata in “Stracci”) ha prima studiato con attenzione il mercato del second hand in Africa e poi ha avviato la sua ONG. Se oggi si parla del problema dei rifiuti tessili in Africa si deve molto a lei, che ha sensibilizzato la stampa mondiale a porre lo sguardo su un problema serio.

La sua organizzazione ha come scopo quello di promuovere la giustizia sociale e l’economia circolare, stimolando l’attività di riuso e di upcycling. The OR Foundation cerca anche di vigilare sullo sfruttamento, soprattutto a spese delle donne, che questo sistema genera: ci sono donne che lavorano in maniera precaria trasportando pesanti balle sulla schiena all’interno del mercato. Un lavoro pagato pochi spiccioli, che viene svolto da chi non ha i fondi per creare una propria attività di commercio.

Fare economia circolare in Kenya

Ethical Fashion Initiative ha iniziato ad opera in Kenya nel 2009. Sono circa un migliaio le persone, soprattutto donne, che lavorano per produrre con tecniche artigianali abbigliamento e accessori. Un modello di business etico, che fa leva sulla valorizzazione delle esperienze locali, per dare spazio ad una creatività “non importata”. Il suo fondatore, Simone Cipriani, sta lavorando ad un progetto che potrebbe partire proprio da questa esperienza per andare a esplorare il territorio dell’upcycling e della valorizzazione degli abiti di seconda mano.

Secondo lui c’è un pubblico di consumatrici attente che sono interessate all’acquisto di abiti e accessori realizzati in Africa, grazie al recupero, con tecniche artigiane, degli abiti usati (lo spiega benissimo nel suo articolo sul n.94 di Africa e Mediterraneo – “Tutela ambientale, rifiuti ed economia circolare in Africa”). Il progetto sta muovendo i primi passi, ma con qualche difficoltà: fare circolarità richiede di avere una solida esperienza sia in tema di progettazione che di produzione dei capi.

Il Rwuanda che ha bloccato le importazioni

L’invasione degli abiti usati è un problema serio per i paesi africani, soprattutto da un punto di vista ambientale. E’ una pillola amara che tanti di loro devono ingoiare se non voglio trovarsi fuori dalle traiettorie commerciali dei paesi occidentali. Solo il Rwanda ha deciso di fare di testa propria, facendosi carico delle ritorsioni. Nel 2016 i Paesi che fanno parte della East African Community  (Burundi, Kenya, Rwanda, South Sudan, Tanzania e Uganda) decisero di annunciare l’intenzione di vietare l’importazione degli abiti usati, diventati ingestibili. Gli USA fecero subito la voce grossa, facendo capire che non sarebbe stata una scelta priva di conseguenze. Solo il Rwanda decise di andare avanti con la propria decisione, mentre gli altri fecero un passo indietro. Il presidente del Rwanda voleva rilanciare l’industria della moda locale. Le tariffe sull’importazione di indumenti usati sono balzate da 0,20 dollari a 2,50 dollari al kg, portando a una drastica riduzione della merce entrata nel Paese. Purtroppo l’effetto sui posti di lavoro è stato potente: l’industria dell’abbigliamento locale ne crea 25 mila, quella degli abiti usati ne creava oltre 300 mila.

La responsabilità estesa del produttore: una opportunità anche per l’Africa?

Le cose potrebbero cambiare e anche l’Europa potrebbe essere chiamata ad aiutare i paesi africani a trasformare in materia prima seconda quelli che di fatto oggi arrivano come materiali in parte destinati alla discarica. La Commissione Europea ha presentato la proposta di revisione del regolamento per le esportazioni di rifiutiGli obiettivi sono due: contrastare il traffico illegale, che secondo le stime interessano circa il 30% delle esportazioni fuori UE; proporre una semplificazione delle norme all’interno dei confini comunitari, così da facilitare il riutilizzo in ottica di economia circolare di materiali che sono in realtà risorse preziose per l’economia europea. L’industria europea utilizza solo il 12% di materiali riciclati nelle sue filiere produttive, mentre tonnellate di risorse preziose vengono spedite all’estero, dove saranno con tutta probabilità bruciate o sepolte in qualche discarica.  Secondo la proposta della Commissione “le esportazioni di rifiuti verso paesi non appartenenti all’OCSE saranno limitate e autorizzate solo se i paesi terzi sono disposti a ricevere determinati rifiuti e sono in grado di gestirli in modo sostenibile”. Questa potrebbe essere una spinta per aiutare l’Africa a trovare nell’economia circolare un’opportunità per il rilancio. Ci vorrà del tempo, ma il cambiamento è già in atto.