Lo storytelling della sostenibilità nella moda è in grado di indirizzare azioni e cambiare percezioni:il modo in cui parliamo dei fenomeni influenza il loro esito. Negli ultimi anni la sostenibilità è stata spesso ritenuta come un ostacolo alla competitività, come un fardello che legislazioni diverse vogliono imporre per appesantire le aziende sul mercato. Questo ha rallentato sicuramente i processi di cambiamento: le aziende vivono gli aspetti legati alla sostenibilità come un tema di compliance, qualcosa che bisogna fare per essere in regola,  perdendo di vista il valore strategico delle azioni.

E’ uno degli aspetti analizzati dallo studio “Just Fashion Transition 2025” realizzato da TEHA e presentato nel corso del Venice Sustainable Fashion Forum, l’appuntamento internazionale ideato e promosso da Confindustria Moda, The European House – Ambrosetti (TEHA) e Confindustria Veneto Est – Area Metropolitana Venezia Padova Rovigo Treviso.

Il concetto di qualità sta evolvendo, anche legato alla necessità di adattare la scala di valore a una sensibilità diversa nei confronti dei temi ambientali e sociali.

“Gli attributi di valore che a lungo hanno descritto il vantaggio competitivo di Francia, Italia e Spagna, negli ultimi 20 anni hanno perso il proprio peso mediatico. Tradizione, Lusso, Artigianalità, Design e Sostenibilità, oggi, vengono associati ai Paesi “Brand-of-Origin” EU meno frequentemente rispetto al periodo 2000-12 (-5pp. in media). Intanto, la Cina ha saputo ridefinire il proprio ruolo nella moda globale facendo leva su innovazione (+5,6 pp.) e creatività (+6 pp.), scostandosi dalla storica fama di “fabbrica del mondo”.  –  ha commentato Carlo Cici, Partner & Head of Sustainability Practices, The European House – Ambrosetti, presentando lo studioAgire non è solo fondamentale ma anche urgente. E l’innovazione è l’unica leva che può permettere di conciliare marginalità di breve termine e sviluppo sostenibile di lungo periodo. Perché in un mercato insostenibile, nessuna azienda può prosperare”.

La transizione non ha una ricetta unica

In UE, il dibattito pubblico indica sempre più spesso il Green Deal come ostacolo alla competitività. Altri fattori meno visibili, come la mancanza di un vero Mercato Unico, incidono però in modo più significativo sulla produttività, come i “dazi interni” che sfiorano il 41% per quello che riguarda la manifattura e arrivano al 100% per il digitale.

Si legge nel report “Analizzando 8 diverse aree geografiche – Stati Uniti, Unione Europea, Cina, Sud-Est asiatico, Paesi del Golfo, Giappone, Sud America e Turchia – emerge chiaramente che non esiste un’unica ricetta per la transizione. L’Europa interviene attraverso la semplificazione, mentre gli Stati Uniti stanno ridimensionando i loro impegni climatici. La Cina accelera gli investimenti a basse emissioni di carbonio forte del proprio mandato politico, ma trascura in gran parte gli aspetti sociali“.

Le prospettive di crescita per la moda

Il settore moda continuerà restare un comparto chiave per l’industria europea. Entro il 2030, l’industria della moda europea potrebbe raggiungere un fatturato pari a €226 miliardi, con una crescita compresa tra il 12% e il 17% rispetto al 2024. Nonostante questa prospettiva di lungo periodo, l’attuale frenata del mercato sta generando consistenti incertezze nel breve e medio termine. I prezzi elevati dell’energia, la debolezza della domanda e la crescente pressione normativa, continuano a minare la ripresa e la redditività del settore, ostacolando una visione di lungo periodo. Le aziende della moda, impaurite e incerte, sono concentrate sul breve periodo e perdono la possibilità di prosperare in un prossimo futuro.

L’ecosistema della moda europea rimane altamente concentrato, con 6 Paesi (Italia, Francia, Spagna, Germania, Portogallo e Romania) che generano il 94% del fatturato totale. L’Italia rappresenta un attore principale, contribuendo a quasi la metà della produzione dell’UE e al 5% del suo PIL nazionale, grazie alla forte artigianalità, all’eccellenza del design e al valore del marchio.

TEHA – Just Fashion transition 2025 – The European House-Ambrosetti elaboration

Mentre la produttività nell’industria della moda europea è cresciuta di quasi il 50% negli ultimi cinque anni, si prevede che l’occupazione diminuirà di circa 293.000 posti di lavoro entro il 2030, soprattutto nell’Europa orientale. I dati rivelano una trasformazione strutturale guidata da aumenti di efficienza, automazione e nearshoring, ma evidenziano crescenti disparità sociali e territoriali all’interno della catena del valore. Nonostante questo la dimensione delle aziende resterà piccola e media e si prevede infatti un aumento di 15 mila imprese entro il 20230.

Circolarità e Overproduction

La produzione globale di fibre è più che raddoppiata negli ultimi due decenni, passando da 58 a 125 milioni di tonnellate, e si prevede che raggiungerà i 169 milioni di tonnellate entro il 2030. Nonostante questo aumento, l’Europa rappresenta solo il 4% circa del consumo globale di fibre, con un calo di quasi il 40% nell’ultimo decennio. L’industria tessile UE consuma circa 4,8 milioni di tonnellate di fibre all’anno, di cui il 58% sintetiche, a sottolineare sia la dipendenza della regione dalle importazioni da Asia, Nord Africa e Turchia, sia il limitato passaggio verso alternative bio-based.

I consumatori dell’UE acquistano oggi il 60% in più di capi di abbigliamento rispetto a 15 anni fa, ma li conservano per metà del tempo, generando quasi 7 milioni di tonnellate di rifiuti tessili all’anno, pari a circa 16 kg pro capite. Anche se dal 2020 i tassi di raccolta siano aumentati dal 35% al 51% e il riciclaggio sia quasi raddoppiato (dall’11% al 20%), il 49% dei tessili scartati finisce ancora nei rifiuti misti, impedendone il riutilizzo.

Le esportazioni di tessuti usati sono diventate la seconda via di smaltimento più comune, generando circa €55 milioni di ricavi per le aziende venditrici. Negli ultimi due decenni, le esportazioni dell’UE di tessuti usati sono più che raddoppiate, raggiungendo 1,4 milioni di tonnellate all’anno, quasi tre volte il livello del 2000. I flussi commerciali si sono spostati dall’Africa all’Asia, che ora riceve il 43% delle esportazioni tessili dell’UE, con Pakistan, Emirati Arabi Uniti e India come principali importatori.

Le conclusioni del rapporto evidenziano le tre principali criticità che ostacolano la transizione:

• i mercati e i sistemi di prezzo non premiano la sostenibilità. Sebbene sia vero che i consumatori non riconoscono un prezzo più elevato, a parità di prezzo, essi privilegiano sistematicamente i prodotti più sostenibili;

• la regolamentazione da sola non sarà sufficiente ad accelerare la transizione. Piuttosto, rischia di spingere le aziende verso una sostenibilità solamente dichiarat, più incentrata sulla divulgazione che sul miglioramento delle prestazioni.

• i costi della transizione non possono essere valutati da soli. Piuttosto, i costi dell’azione dovrebbero essere misurati e valutati rispetto ai costi a lungo termine dell’inazione, che nel caso del cambiamento climatico possono essere difficili da gestire. Le clean tech disponibili nel settore sono nel 66% dei casi già mature, ma la loro adozione è ancora limitata a causa degli elevati costi iniziali.

Potete trovare qui lo studio integrale