La moda è la seconda industria più inquinante al mondo e ognuno è chiamato a mettersi in gioco per ridurre il proprio impatto. Lo sa bene Vogue Italia, che per il numero di gennaio ha preso una decisione singolare: eliminare i servizi fotografici. Come si può comunicare la moda senza far vedere il vestito? comprate il numero in edicola se volete scoprirlo.

Per carità, può essere anche un esperimento creativo interessante, ma definirla una scelta “sostenibile” mi pare un po’ azzardato.

Centocinquanta persone coinvolte. Una ventina di voli, una decina di treni. Quaranta macchine a disposizione. Sessanta spedizioni internazionali. Almeno dieci ore di luci accese ininterrottamente, alimentate in parte da generatori a benzina. Scarti alimentari dei catering. Plastica per avvolgere gli abiti. Corrente per ricaricare telefoni, macchine fotografiche…

Così il direttore di Vogue Italia, Emanuele Farnetti, ci racconta l’impatto ambientale di un servizio di moda. Vogue ha appena pubblicato il proprio manifesto di valori, di cui abbiamo già parlato sul blog (link all’articolo) e questa scelta va nella direzione di rafforzare la sostenibilità della scelta.

Tutte le copertine, e i servizi che vedrete nelle prossime pagine, sono infatti prodotti da artisti che hanno lavorato rinunciando a viaggiare, spedire, inquinare. Sono vere e proprie storie di moda: gli autori sono stati affiancati da stylist, e hanno preso in prestito il volto di donne reali. Ma la sfida era dimostrare che si può, eccezionalmente, raccontare gli abiti senza fotografarli. 

E’ evidente che dobbiamo fare i conti con una tendenza dilagante che sta andando a identificare la parola “Sostenibilità” con quella di “Essenzialità“. Ma dobbiamo ritenere il taglio del lavoro di fotografi, creativi, stylist, parrucchieri, truccatori, attrezzisti, operatori, una strategia di sostenibilità?

Una storia italiana

Non appena ho letto della notizia di Vogue mi è venuta in mente una cosa sulla quale avevo lavorato tanti anni fa: il progressivo spostamento dei servizi fotografici di moda all’estero, quelli commissionati dai grandi magazine, che davano da lavorare a una intera filiera di professionisti. Era il 2006, la situazione si stava davvero facendo complicata per quella vocazione “esterofila” che da sempre caratterizza il settore. Un servizio scattato a New York appariva di base migliore di uno scattato a Milano, tanto per capirci.

Era il 17 maggio 2006 e per la prima volta le modelle decisero di scioperare, sostenute dalle loro agenzie di moda. Il loro sciopero avrebbe fatto più scalpore di quello dei parrucchieri e dei fotografi, si pensò. Ma in realtà tutta la categoria era con loro. Repubblica scriveva :”Ma ai vertici delle agenzie, aderenti all’Assem, l’associazione che rappresenta anche fotografi, truccatori e parrucchieri, serpeggia il malcontento “per l’assoluta mancanza di regole del sistema italiano, che permette ai concorrenti stranieri di fare quello che vogliono senza l’obbligo di una licenza o di un ufficio “made in Italy” e l’inevitabile evasione fiscale”. 

Su Fashion Magazine Guido Dolci, presidente dell’Assem, dichiarava: “Dolci ha anche sparato a zero contro alcune riviste, che fanno sistematicamente realizzare la quasi totalità dei servizi di moda all’estero, impoverendo Milano. “Il giro d’affari diretto delle agenzie associate ad Assem – ha detto il presidente – è sui 200 milioni di euro, ma tra ristoranti, alberghi, discoteche, tassisti, fotografi e truccatori può essere stimato in un miliardo di euro”. 

Anche un libro, pubblicato qualche anno dopo, racconta il progressivo abbandono di Milano da parte del mondo della moda. Leggetelo, se lo trovate: “L’ultima sfilata. Processo alla casta della moda italiana”, di Luca Testoni.

Milano al top

Fortunatamente Milano, una città che ha mille vite, ha superato quel momento buio e la moda e la comunicazione della moda è tornata in questa città straordinaria, in continuo movimento. Ma quante figure sono state perse in quegli anni bui?

Illustrazione più sostenibile della fotografia?

E poi quali conclusioni dobbiamo trarre dalla scelta di Vogue: che ci sono forme artistiche più sostenibili di altre? Che l’illustrazione è migliore perché consuma minore risorse ambientali della fotografia? Forse sarebbe stato interessante provare a reinventare il modo di fare quesi servizi fotografici, magari a “Km Zero” fotografandoli dove sono stati realizzati, da fotografi locali, per dare nuovi stimoli al settore.

Mi piace la sfida creativa di comunicare un abito senza mostrarlo in foto, può essere interessante. Ma non mettiamo di mezzo la sostenibilità, perché non c’entra niente.