In questi mesi si sta parlando moltissimo di riciclo e di economia circolare nella moda: ne parlano i brand e ne parla anche la politica. L’Europa ha predisposto un piano in 54 punti per agevolare la transizione all’economia circolare e si stanno aprendo i primi bandi che metteranno a disposizione tantissime risorse per imprese e start up. Ma siamo davvero pronti a stravolgere il nostro modo di progettare e produrre? Per adesso i dati sono così poco confortanti, che sicuramente non potremo che migliorare: secondo uno studio del 2017 dell’Ellen Mc Arthur Foundation solo l’1% degli abiti usati viene riciclato; secondo Textile Exchange il 97% delle materie prime utilizzate nella moda sono vergini. Quindi possiamo dire che di economia circolare e riciclo si parla molto, ma se ne fa poco.

Pre-consumer, consumer, post-consumer

L’economia circolare non è solo riciclo: quello è uno degli aspetti da prendere in considerazione. In generale si tratta invece di prendere in considerazione un prodotto lungo tutto il suo ciclo di vita, da quando viene progettato a quando arriva alla fine del suo ciclo di vita. Un capo usato può essere riciclato, riusato, immesso sul mercato così com’è. Utilizzare una fibra riciclata non è sufficiente per fare un progetto di economia circolare. Gli scarti vanno gestiti lungo tutto il ciclo di produzione e di vita.

Si parla di gestione degli scarti sia pre-consumer (che derivano dalla lavorazione e dalla progettazione), a quelli legati al consumo dell’oggetto fino ad arrivare al post-consumer, cioè a quello che viene fatto di un capo quando ha terminato la funzione per il quale è stato progettato. Ma è proprio da qui che può iniziare un’altra storia, se il capo è stato progettato bene.

I designer hanno una grande responsabilità quando si parla di economia circolare, da loro deve partire il cambiamento. L’organizzazione italiana Rén Collective ha pubblicato una Guida al Design di Moda Circolare che potete scaricare gratuitamente e nel quale sono disponibili spunti interessanti. Scoprirete che ci sono tantissimi aspetti che devono essere presi in considerazione quando si parla di economia circolare.

La grande sfida del riciclo

Nel 2013 H&M è stato tra i primi brand a lanciare la campagna per la raccolta e il riciclo degli abiti. Il messaggio era semplice: si invitava il consumatore a riportare in negozio i propri abiti usati ottenendo in cambio uno sconto per acquisti in negozi. In tanti hanno aderito alla campagna, ma cosa ha fatto H&M di tutti quei materiali raccolti?

Quello che si fa di solito con gli abiti usati: quelli che è possibile usare per il second hand vengono selezionati e immessi nuovamente sul mercato europeo. Una parte viene invece inviato in Africa. Poi ci sono quelli che vengono destinati al riciclo e che prendono due strade diverse: una piccola parte viene riciclata (ad esempio la lana o il jeans sono materiali che adesso vengono riciclati con semplicità). Un’altra parte viene invece inviata in India, dove questi materiali di scarto vengono riciclati e diventano fibre di scarsissimo valore, con i quali vengono fatte coperte o cose similari che di nuovi finiscono in Africa.

Alla fine tutto finisce in Africa

Ho cercato di semplificarvi il viaggio dell’abito usato, ma avrete ben capito che alla fine quello che viene inviato in Africa sono praticamente rifiuti. Che siano abiti di seconda mano (che possiamo definire stracci) o che siano coperte realizzate con materiali di scarsissimo valore, quello che stiamo facendo è inondare l’Africa di rifiuti. Alcuni paesi sono corsi ai ripari: Ruanda, Tanzania ed Uganda, per citare alcuni Paesi africani, hanno chiuso le frontiere agli abiti usati. Inondati dai rifiuti tessili di tutto il mondo, questi Paesi hanno deciso di dire basta. In Nigeria ci sono invece alcune start up che stanno lavorando per cercare di avviare attività di riciclo di materiali come il poliestere cercando di trasformare in opportunità quello che ad oggi è solo un grande problema.

Anche le coperte che arrivano dall’India e che costano 1 o 2 euro, sono in realtà un altro modo di inviare rifiuti in Africa: materiale di scarsissima qualità, che non ha più nessuna ricchezza e che in questo modo viene smaltito. Il problema del riciclo va risolto in altro modo: servono idee e investimenti per creare capi e materiali che alla fine del proprio ciclo di vita possano essere nuovamente immessi sul mercato, anche se in altra forma o per altro uso.

A Prato ci sono tante aziende che raccolgono gli abiti usati da tutta Europa e avviano un primo processo di selezione. E’ affascinante vedere come avviene questo procedimento, capire cosa si trova in quei sacchi di abiti gettati via. Quei sacchi raccontano molto anche del Paese da cui provengono, delle abitudini di consumo dei propri abitanti. Ci sono aziende che dagli abiti usati fanno una selezione di oltre 200 componenti diverse, suddivise per materiali, ma anche per classi di qualità. In quello che gettiamo ci sono ancora molti abiti che possono avere una nuova vita ed è quella la ricchezza che sta all’interno di quei sacchi. Il resto sono materiali di scarto che possono anche interessare a industrie diverse: all’automotive o all’edilizia per le imbottiture, ad esempio. Ma queste filiere sono ancora troppo disgregate e poco codificate.

La collaborazione con i fornitori: l’unica strategia efficace

Per creare una strategia di riciclo dei capi efficace, la collaborazione dei fornitori e della catena di approvvigionamento sono fondamentali. E’ proprio su questa collaborazione che ha fatto leva il brand Girlfriend Collective, che sta creando dei modelli di business molto interessanti intorno a questo tema.

Innanzitutto, per essere certi di creare un capo che sia davvero riciclabile alla fine della sua vita, i designer di Girlfriend Collective inviano al proprio fornitore di tessuti, Unifi che ha sede in Carolina del Nord, i prototipi. A questo punto punti Unifi fa una valutazione sulla riciclabilità e solo i capi che superano l’esame del fornitore finiscono sul mercato. Non solo si fa una valutazione sui tessuti, ma anche sugli accessori, come cerniere ed etichette, che devono essere facilmente removibili.

Il progetto è nato per il riciclo di capi per l’active wear come magliette e leggins, ma dal mese scorso il brand ha anche lanciato sul mercato nuovi capi fatti con fibre riciclabili. Adesso si possono anche acquistare calzini e biancheria intima. Ma non solo: il consumatore può inviare i propri capi usati all’azienda e ricevere un buono sconto per futuri acquisti.

Meno scarti, più efficienza

La gestione degli scarti di produzione e degli invenduti è diventato un grosso problema per l’industria della moda. I brand non possono più permettersi gli sprechi e non solo per ragioni economiche: produrre troppo o produrre male crea un danno ambientale, spreca risorse, che sono limitate. Per questo le strategie di economia circolare nella moda prendono in considerazione anche i dead stock. Ne ho parlato in un episodio del podcast di qualche settimana fa. Ho avuto l’occasione di intervistare il designer Rafael Kouto, che mi raccontato la sua filosofia creativa basata sull’upcycling: quello che per qualcuno è uno scarto, per altri è una risorsa.

Atelier Riforma, pochi giorni alla chiusura crowdfunding per l’upcycling che parte dal basso

Si occupa di upcycling la start up “Atelier Riforma”: le due giovani fondatrici, Elena Ferrero e Sara Secondo, hanno lanciato questo progetto sostenibile che è basato proprio sull’upcycling. Sono operative già da qualche mese, mettendo insieme competenze ed esperienze diverse: Atelier Riforma è un progetto che si occupa di ritirare capi dismessi o invenduti per riadattarli e personalizzarli. Operano insieme a cooperative sociali, designer free lance, scuole di moda, che stanno dando un loro contributo alla crescita di questo business. Sprovviste di un negozio fisico, le due fondatrici hanno lanciato una campagna di crowdfunding (potete aderire qui) con la quale è possibile sostenere il progetto pre-acquistando una serie di prodotti. I fondi raccolti serviranno per implementare la parte tecnologica del progetto: il sistema di tracciabilità, ma anche la possibilità di mostrare precisamente a chi acquista la quantità di risorse che sono state risparmiate grazie all’acquisto di un nostro abito riformato, invece di uno nuovo.

La lezione che arriva dal passato

Imparare a progettare senza sprecare risorse è possibile e a volte gli insegnamenti arrivano dal passato, quando tutto era prezioso e lo spreco era un vizio capitale. Nell’episodio 10 del podcast vi ho raccontato la storia della progettazione degli abiti durante la seconda guerra mondiale, per risparmiare il tessuto e rendere i capi più funzionali. Piccoli accorgimenti, che hanno però avuto grandi risultati. A volte le cose basta solo ripensarle nel modo corretto: l’economia circolare ci lancia una sfida unica, che solo menti aperti e coraggiose potranno affrontare. Si può riciclare tutto, ma non le idee.