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Uno sguardo etnografico sui cenciaioli di Prato

DI VERONICA ARENA

Nell’operazione di rilancio industriale del distretto Pratese all’interno del paradigma della
sostenibilità, si delinea, assieme ad altre interessanti strategie retoriche, un significativo tentativo
di patrimonializzazione della lavorazione della lana rigenerata. Infatti, parallelamente alla
valorizzazione del processo produttivo che fonda sulla sua stessa antichità i presupposti di
eccellenza e autenticità, si ha una celebrazione della “pratesità” come capacità di inventare e
reinventarsi con scaltrezza, dedizione alla fatica e al lavoro, lungimiranza nell’aver anticipato
pratiche riconosciute oggi come imprescindibili per il problema dei rifiuti e delle risorse.
Avvalendosi ad esempio dei canali social più comuni, alcune aziende pratesi propongono un
messaggio semplice costituito di pochi concetti ripetuti, attinenti sia all’economia circolare che alla
tradizione tipica degli stracci, celebrando l’antico mestiere della cernita, non a caso spesso definito
“arte”.

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Nei siti web delle aziende più strutturate si ritrova invece la stessa tipologia di messaggio ormai
consueta a tutti quei brand che si affidato al valore della tradizione per marcare una differenza e
attribuire densità valoriale al proprio prodotto, distinguendolo dalla omologazione globale: da un
lato l’innovazione, dall’altro la tradizione del territorio che rimanda ancora una volta al patrimonio
immateriale di conoscenze nel recupero degli stracci. Il valore racchiuso nella continuità
temporale e nella persistenza diviene risorsa competitiva inalienabile.


Nel corso delle mie ricerche antropologiche sul web e sulla stampa, mi sono imbattuta in una
rappresentazione ricorrente, che credo si possa interpretare come esito di un meccanismo di
oggettivazione culturale interno al suddetto processo di patrimonializzazione. Mi riferisco agli
ammassi di stracci talvolta proposti con le mani che li classificano, e del fiocco di lana riciclata. Il
decorativismo dei colori ammanta l’immagine di un estetismo quasi astratto, e la rende uno degli
elementi distintivi del corredo simbolico- iconico di questo processo produttivo e della storia di
tradizione e sostenibilità che lo avvalora. La sua stessa diffusione ne determina la funzione di
universalità che cela tuttavia l’immobilizzazione riduttiva di un processo in realtà saturo di polvere,
sporco, odori, oltre che di contenuti antropologici, sociali e soprattutto biografici.
Eccoli, allora, i cenciaioli con le loro storie di fabbrica e la loro antica sapienza, mentre scelgono e
classificano gli stracci, intenti a riavvolgere l’entropia, il disordine, la dissipazione dovuta al
processo produttivo e di consumo che li ha preceduti, intenti a ristabilire un ordine degradato e a
riportare la materia-rifiuto ad uno status iniziale e primigenio.


Osservandoli emerge un altro suggestivo significato di ordine morale che rafforza il nesso
concettuale fra la nozione fisica di entropia e un implicito imperativo etico di sanare il disordine
causato dall’empietà pericolosamente distruttiva dell’azione antropica nel consumo e nella
produzione dissennata. Se, come rilevava l’antropologa Mary Douglas, in Ebraico la radice della parola “santo” riconduce alla “separazione”, per confluire poi nel campo semantico dell’”integrità”, dell’essere conforme ad una classe di appartenenza originaria, il cenciaiolo sembra svolgere forse inconsapevolmente una sorta di “purificazione” del mondo.
L’operazione di cernita costituisce infatti il passaggio imprescindibile affinché scarti e rifiuti tessili
possano rientrare nel ciclo produttivo. In Prato l’addetto a tale compito, il cenciaiolo-cernitore (o
sceglitore), rappresenta da sempre una figura professionale ricercata e ben remunerata, dato che
solo una lunga esperienza consente di svolgere il lavoro con tempi e risultati altamente produttivi.

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La centralità dell’operazione svolta dai cernitori è fondamentale nel processo dell’economia
circolare, compito che viene svolto tuttora con modalità quasi invariate fin dalle origini della
lavorazione della lana meccanica. La finalità è riorganizzare quel valore disorganizzato (entropico),
tramite la classificazione per colore e tipologia di fibra.
Occorre precisare che esistono due macro-tipologie di rifiuti tessili: lo scarto di lavorazione
(definito pre-consumo) come ritagli, cimose, pezzami; lo straccio (post-consumo), ovvero
l’indumento usato e dismesso. Nel primo caso il processo di selezione è più breve poiché il
materiale, ancora pulito, viene reimmesso nel canale di recupero prima di subire ulteriori
lavorazioni ed applicazioni (cerniere e bottoni, ad esempio, che quindi non sarà necessario
togliere) e qualsiasi tipo di usura, ed è spesso anche già raggruppato per colori base; nel secondo
caso il processo è indubbiamente più lungo e articolato. Per entrambe le tipologie lo scarto-rifiuto
– dal momento in cui viene avviato verso i canali di recupero del valore – è già categorizzato
concettualmente dagli operatori come materia prima, benché ancora in stato di disordine o, per
dirla alla pratese, ancora “in sorte”.


Mi soffermo su questa affascinante espressione idiomatica della quale durante visite e incontri ho
più volte chiesto l’origine e il senso, ottenendo solo la conferma di un significato attinente al
disordine e alla confusione di colori. Presumo che i cenciaioli di un tempo, leggendo l’etichettatura
“unsorted clothing” posta sulle balle di stracci importate dall’America, abbiano tradotto per
assonanza con l’espressione “in sorte”. All’errore di traduzione si aggiunse così un suggestivo
riferimento al Caso e alla Sorte, che mescolava abiti, residui di mondi socialmente ed
individualmente significativi, fino a portarli negli stanzoni di Prato confusi e pressati in grandi
sacchi, per poi trasformarsi in nuove cose e accompagnare nuove vite.


I capannoni dove si svolge la cernita appaiono tutti uguali fra loro: l’omogeneità degli ambienti e
della condizione di lavoro trasmette la sensazione di attraversare zone di confine; questi spazi
sono enormi contenitori di oggetti transitanti, rischiarati da luce di grandi finestre e neon, saturi di
un caratteristico odore di polvere e privi di connotazioni che li contraddistinguano l’uno dall’altro.
La similarità e l’anonimato potrebbero farne dei “non luoghi” (nel significato specifico che
intendeva Marc Augè), invece in ognuno di essi si avverte la presenza di uomini che li “abitano”,
operando nel senso più profondo del termine. Osservandoli si coglie pienamente l’essenza
dell’operare umano, fondato su tecnica e linguaggio: l’addetto alla selezione attiva una relazione
fra sé e la materia che maneggia sotto forma di stracci, esercitandovi un’azione che lo coinvolge
nella sua corporeità e ne determina (e presuppone) l’appartenenza ad una ben definita cultura
fatta di gesti ripetuti e di parole antiche. Il gergo specifico e caratterizzante è costituito da termini
come “saie”, “rossino”, “foderoni”, “pezzame”,“trusco”,“nocetta” e molti altri, che racchiudono
significati stratificati ma immediatamente comprensibili nella comunità territorialmente e
professionalmente ristretta degli sceglitori pratesi, denotando allo stesso tempo le caratteristiche
della materia, le necessarie pratiche operative per trattarla, e le opportunità commerciali che se
ne possono ricavare.
La posizione tipica dello sceglitore, che a Prato chiamano “a guanciale” lo situa seduto in terra, su
un guanciale appunto, all’interno di un’area delimitata da stracci: quelli “in sorte”, in un mucchio
vicino a lui; quelli via via selezionati, in mucchi sparsi attorno, distinti per fibra o per colore.
All’interno del cerchio di stracci egli assume una prossemica peculiare estendendosi virtualmente
nello spazio di cui occupa il centro, proprio come se lo spazio stesso fosse uno strumento di
classificazione e di relazione con la materia. Intendo dire che il gesto che più mi ha colpito è quello
di collocare. Disporre lo straccio, velocemente esaminato e sforbiciato dal superfluo, verso il suo
mucchio di appartenenza naturale inverte il disordine, azzera la storia, ricrea materia.
È una nuova virtuosa estrazione, organizzativa e classificatoria, che si attua usando le forbici, lo
spazio attorno, il corpo.

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Il corpo, perché è l’esperienza percettiva il fondamento della conoscenza che consente la
selezione. Questo il motivo per cui la sapienza dello sceglitore non è tramandabile astrattamente
ma la si acquisisce nei magazzini con le mani fra i cenci, solo imparando da chi ha decenni di
esperienza.
Osservando queste persone all’opera è impossibile non attingere a quel filone dell’antropologia
che ha analizzato la centralità dell’esperienza percettiva come strumento di conoscenza,
costruzione oggettuale della realtà, presenza determinante nel mondo. Il suono dello strappo,
l’odore o il colore della combustione, la sensazione tattile permettono all’operatore esperto un
immediato riconoscimento della composizione dello straccio: tatto, vista, olfatto, udito, in
connessione, sono le “forme somatiche di attenzione” attraverso cui lo sceglitore riscopre la
materialità nella materia-rifiuto.


Ma la percezione sensoriale non è sufficiente; l’interazione dello sceglitore con la sua materia-
rifiuto necessita infatti del coinvolgimento del corpo anche come vettore di forza. Invertire
l’entropia comporta consumo e dissipazione di energia: separare, scucire, sfoderare – azioni
complementari alla classificazione- richiedono forza fisica, che per lo sceglitore si traduce in usura
del corpo e in massacrante fatica, alimentata da “fame e passione” come gli anziani sceglitori
spesso ripetono narrando le loro storie.
Tuttora si tocca tutto con le mani. Gli unici due arnesi di cui è dotato lo sceglitore sono le forbici
per tagliare via cerniere e bottoni, e il coltello per incidere e avviare lo strappo; entrambi vengono
utilizzati grazie alla sapienza incorporata e acquisita fodera dopo fodera, straccio dopo straccio,
nel corso di molti anni di “lavoro da poveri”. Gli strumenti sono quasi un’estensione del corpo, una
specializzazione esosomatica finalizzata al gesto del separare la materia.

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Finora, l’unica mediazione tecnologica fra lo sceglitore e la sua materia-rifiuto è stato l’accendino
per bruciare le fibre in modo da poterne fiutare l’odore e osservare il colore della combustione per
riconoscere il tipo di fibra. Ma in un futuro non troppo lontano, l’auspicato inserimento definitivo
dell’economia circolare nell’agenda politica, inciderà fortemente sulle pratiche finora immutata
della cernita: sia a livello nazionale che locale, stanno prendendo corpo progetti di investimento e
di realizzazione di poli per il riciclaggio, di cui Prato è capofila per un grande textile hub.
Il salto tecnologico dall’accendino agli infrarossi è vertiginoso e senza passaggi intermedi. È ancora
presto per osservarne le ricadute occupazionali e socio-culturali sugli addetti alla cernita del
distretto; certamente la modernizzazione tecnologica e la scala dimensionale rappresentate dalle
nuove piattaforme di riciclo tessile, apporteranno enorme disponibilità di Materia Prima Seconda
Tessile da reimmettere nel comparto tessile-moda, allargando l’utilizzo del riciclato finora rimasto
tutto sommato di nicchia.
Tuttavia la tecnologizzazione del processo ne espellerà il cenciaiolo, il suo corpo, la sua esperienza,
con la probabile marginalizzazione o addirittura la scomparsa della sua peculiare e antica cultura.
Ne rimarrà solo un racconto folkloristico?
Ancora oggi il fiocco di lana rigenerata, così come di lana vergine, viene sottoposto all’operazione
di tintura chimica; tuttavia, la sensibilità ecologista e un risparmio economico considerevole hanno
spostato il processo di filatura sempre più verso l’utilizzo di miste di lana meccanica di diversi
colori, miscelati in modo da ottenere il colore finale desiderato senza alcun passaggio di tintura,
ottenendo così il cosiddetto “non tinto” o “not dyed”. Infatti, nel distretto alcune ricercatissime
figure professionali sono in grado di realizzare con esattezza specifici pantoni su richiesta dei
clienti, utilizzando i fiocchi di lana meccanica nei colori a disposizione sul momento, provenienti
dall’accurata selezione degli stracci effettuata a monte dagli sceglitori.

Anche in questa fase così peculiare della lavorazione, è fondamentale e insostituibile la componente umana di creatività ed esperienza: il più delle volte la “ricetta” con cui si era ottenuto un dato colore non è ripetibile
perché non sono sempre disponibili gli stessi colori base, ma i maestri delle miste riescono ugualmente a raggiungere il medesimo risultato finale giocando sulle dosi delle cromaticità utilizzabili al momento.
I “maghi” alchimisti del colore operano una ricomposizione creativa della materia
precedentemente separata dagli sceglitori. A Prato si celebra un “solve et coagula” rigenerativo
del rifiuto: scomporre e separare gli elementi, per poi rilegarli e in nuove composizioni armoniche
a basso impatto ambientale. Il processo trasformativo e creativo della produzione not dyed e
chemical free implica che nella fase preparatoria sia stata effettuata una classificazione dei colori
minuziosa fino al dettaglio delle sfumature.
La meticolosa separazione dei colori è possibile grazie alla nostra comune ed innata facoltà
tassonimica, che si fonda sugli schemi di categorizzazione immediatamente disponibili alla mente
umana e su strutture linguistiche e di pensiero quali metafore, analogie, metonimie.
Molte delle definizioni di colore usate dai cenciaioli per raggruppare gli stracci, come “celeste
Madonna”, “rosso ciliegia” o “verde ferroviere”, presuppongono un alto grado di universalità per il
legame definiens – definendum. In realtà per molte delle classificazioni in uso nel distretto, questo
non è sempre vero; la maggior parte dei suggestivi tassonimi descrittivi e narrativi, attinge da
informazioni che l’individuo o il gruppo sociale (nel nostro caso gli sceglitori) possiede nel proprio
lessico mentale formatosi all’interno di un orizzonte culturale stratificato e territorialmente
circoscritto.


Dunque, se classificare è riconoscere o costituire analogie con ciò che si conosce, la comunità
linguistica e di pratiche è il substrato imprescindibile che permette allo sceglitore di riorganizzare
quel valore disorganizzato sui cui opera la sua classificazione.
Tabernacoli dedicati alla Madonna, ferrovieri, orti di cavoli toscani e frutteti di ciliegie rosseggianti,
paesaggi conosciuti o collettivamente immaginati, e mille altri referenziali semantici di infinite
sfumature, sono dunque l’ultimo indispensabile strumento per l’opera classificatoria e rigenerativa
dello sceglitore.

Tratto dalla tesi di laurea: “Celeste Madonna. I cenciaioli di Prato e l’economia circolare. Ricerca
etnografica sul distretto Pratese”.
Discussa presso l’università di Firenze, Corso di Laurea Magistrale in Studi Geografici ed
Antropologici, nel Dicembre 2022.

BIOGRAFIA

Veronica Arena, nata a Firenze 49 anni fa, ho conseguito la maturità classica presso il Liceo Cicognini di Prato.
Lavoro da molti anni per un brand fiorentino della moda, per il quale mi sono occupata prima di acquisti materie prime, poi di gestione della filiera produttiva; ruoli, entrambi, che mi hanno permesso di entrare in diretto contatto con il mondo della fabbrica nelle sue peculiarità anche territoriali oltre che di prodotto.
La passione per le materie umanistiche mi ha spinto a riprendere gli studi in età adulta, conseguendo prima una laurea Triennale in Lettere Moderne, poi a scegliere la Magistrale in Studi Geografici ed Antropologici con particolare attenzione alle tematiche di antropologia dell’ambiente (altra grande passione), fino a concludere il percorso con una lunga ricerca etnografica sul distretto Pratese nella sua tradizione di riciclaggio dei tessuti.

Vivo fra gli alberi e gli animali in quel poco di natura rimasta fra Campi Bisenzio e Prato, con frequenti soggiorni a Milano dove abita il mio compagno.

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