Consumo infelice: fast fashion e catene globali del valore

DI FIAMMA ANDREI

Vi siete mai chiesti cos’è che hanno in comune la casa automobilistica Ford e il fast fashion? Due realtà apparentemente molto lontane, sono in realtà strettamente collegate, perché proprio dai metodi adottati dal signor Ford negli anni Quaranta ha preso forma l’odierna produzione di massa, sì anche di abiti. 

Se è vero che con la rivoluzione industriale di fine Settecento nasce il concetto di industria moderna e vengono immessi sul mercato i primi beni standardizzati, così come è vero che il lavoro salariato (nella forma criticata da Marx) permette di avere entrate prevedibili e di poter investire una parte dei propri risparmi in quei beni, con la crisi di Wall Street del 1929 questo tipo di capitalismo privo di qualsivoglia regolazione cede il passo ad uno decisamente più regolato, da mano statale. Il nuovo capitalismo regolato negli Stati Uniti funziona così bene che dà avvio a 30 anni di crescita e sviluppo detti “Trenta Gloriosi”, durante i quali ad un certo punto Henry Ford decide di applicare alla sua catena di montaggio i concetti elaborati dall’ingegnere Taylor per eliminare le inefficienze del sistema produttivo della fabbrica, per trovare la one best way.

Dal fordismo al fast fashion

Tuttavia il modello di Taylor nella sua forma pura tendeva all’automazione dell’uomo e per questo motivo era stato aspramente criticato, il risultato del “riadattamento” delle idee operato da Ford è meno disumano, ma comunque prevede un ambiente lavorativo estremamente efficiente, con compiti semplici, infinitamente ripetuti, individualmente svolti ma con risultato dato dallo sforzo collettivo, tempi serrati. L’aumento della produzione e l’abbassamento dei costi di quanto prodotto era inevitabile, e non solo per le auto, ma anche per altri beni, come gli abiti: Hessen & Mauritz, meglio noto come H&M fa la sua comparsa sul finire degli anni ’40, Primark, Zara, Topshop seguiranno nei due decenni successivi. Insieme ai grandi magazzini aumentano anche i capi posseduti per persona, per una media di 20 ciascuno. 

Tutto perfetto fino ad un’altra crisi, quella che segue lo shock petrolifero del 1973 e che rende evidenti gli altissimi costi delle fabbriche fordiste, tutte di grandi dimensioni; inoltre il mercato era saturo dei beni prodotti e le rivendicazioni sindacali iniziavano a farsi sentire. Il tramonto del Taylor-fordismo porterà allora a due alternative: la prima è la più felice, quella proposta dalla fabbrica giapponese Toyota, nella quale la produzione avveniva sulla base della domanda, per evitare sprechi, e venne denominata produzione snella, lean production; la seconda è quella delle delocalizzazioni produttive, ovvero lo spostamento delle fabbriche all’estero per sfruttare vantaggi di costo di materie prime o di manodopera. 

L’era della delocalizzazione

Nonostante una parte di economisti abbia sostenuto i benefici della delocalizzazione e della creazione di catene globali del valore, come la redistribuzione di benessere anche verso paesi in via di sviluppo, alla luce dei fatti, anche più recenti come il crollo del Rana Plaza del 2013, o la campagna di Abiti Puliti affinché Nike (e non solo) paghi le proprie lavoratrici il compenso che spetta loro, sono più gli aspetti negativi che positivi. Accade di frequente che per accaparrarsi gli investimenti esteri questi paesi organizzino tra loro dei beauty contests nei quali per vincere si gioca a ribasso delle tutele dei lavoratori e del costo della manodopera. È scontato dire poi che a fare le spese di questo sistema perverso sono le categorie più fragili e meno tutelate: donne, migranti, profughi, bambini.

È possibile fare più di un triste esempio: lo “schema Sumangali” in India prevede l’identificazione da parte di agenzie apposite di ragazze in età da marito alle quali viene promesso un lavoro sicuro, in fabbriche equipaggiate di ogni comfort, alla fine del quale avranno ottenuto una somma adatta a fare da dote; una volta giunte sul luogo di lavoro il sogno sparisce per lasciare spazio a violenze fisiche e psicologiche, turni di anche 16 ore per un minimo 26 giorni al mese. Finiscono spesso per essere licenziate ad un mese dalla scadenza del contratto, così da non essere pagate.  Agenzie apposite esistono anche per i minori in Vietnam, la cui età è spesso sconosciuta anche al datore di lavoro. In Cina il fenomeno delle fabbriche dormitorio è ancora valido per aziende come Shein, e anche se quasi completamente scomparso, in passato portò a numerosissimi suicidi tra i lavoratori.

Ma anche negli Stati Uniti, nelle fabbriche tessili di Los Angeles, i lavoratori emigrati dal Sud America o dall’Asia vengono raggirati tramite lo sfruttamento delle barriere linguistiche o la confisca dei documenti. In paesi come Bangladesh, India, Vietnam, Cambogia, la rappresentanza sindacale è pressoché nulla considerati anche gli evidenti limiti alla libertà di associazione, manifestazione e riunione, e qualora siano presenti associazioni sindacali le donne sono troppo spaventate dal loro approccio “aggressivo” (anche se fortunatamente negli anni, specialmente dal 2013, hanno iniziato a muovere i propri passi sulla via di sindacati o associazioni femminili autonome). 

Cosa spinge all’acquisto compulsivo

Cos’è però che, nonostante la maggiore consapevolezza sulle atrocità della filiera produttiva del settore moda, spinge a comprare continuamente? Farò qua una sintesi in punti di quanto emerso dalla ricerca per la tesi, ma anche dal confronto con tanti consumatori e consumatrici diversi:

  • il prezzo basso e conseguentemente la quantità battono la qualità: apparire, differenziarsi pur paradossalmente rimanendo al passo con la spinta omologatrice della moda è fondamentale;
  • In un processo dall’alto verso il basso, non rinunciamo all’ostentazione: se non ci possiamo permettere l’originale, che è simbolo di potere e ricchezza, ricorriamo alla copia perché non è concepita la rinuncia o una scelta completamente differente;
  • Con investimenti in pubblicità sempre più cospicui nei vari decenni ci hanno convinti che l’acquisto possa in qualche modo annullare le emozioni negative, colmare il vuoto che sentiamo dentro di noi. Spoiler: non funziona. Anzi è una soddisfazione così momentanea che dura pochissimi attimi, il vuoto e la negatività non spariscono, compriamo altro per risolvere. 
  • Siamo maledettamente pigri: informarsi costa tempo, nonostante le mille fonti a disposizione, credere ad un’etichetta è più facile e veloce. Inoltre a fare divulgazione e operazione di sensibilizzazione del consumatore sono quasi sempre canali ai quali si rivolgerà chi ha già una coscienza e un agire di consumo differente dalla massa. 

Finché non se ne parlerà di più, finché i brand come le grandi testate, pagine, blog, non faranno la loro parte, sentiremo sempre lontano quanto accade nelle fabbriche tessili e continueremo a compare un top per il venerdì sera a cinque euro, mentre dall’altra parte qualcuno lo sta probabilmente pagando con inimmaginabili rinunce o con la vita.

Titolo tesi: “Consumo infelice: fast fashion e catene globali del valore”. Scienze Politiche Università di Firenze, Studi Internazionali

Foto di No Revisions su Unsplash

BIOGRAFIA

Mi chiamo Fiamma Andrei, ho 22 anni e da poco mi sono laureata in Scienze Politiche, Studi Internazionali a Firenze, dove sono nata e cresciuta. Sono curiosa, scoprire e raccontare storie ha sempre fatto parte di me, come il mondo degli abiti e dei tessuti, che ho avuto la fortuna e il privilegio di approcciare fin da piccola, da molto vicino e in una forma artigianale come quella della sartoria. In questa dimensione la cura per i materiali e per i dettagli era fondamentale, così crescendo è stato naturale apprezzare realtà come quelle più sostenibili e locali, che di storie ne hanno di uniche. Quindi eccomi qua, nel mio piccolo, a cercare di informare e sensibilizzare quanto più mi è possibile, mentre unisco due grandi passioni.

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